Tra gli apostoli dell'Avana

Tra gli apostoli dell'Avana L'elettrizzante attesa del Papa in una terra dove è vietato portare indosso il crocefisso Tra gli apostoli dell'Avana Una Chiesa che esce dal silenzio L'AVANA DAL NOSTRO INVIATO Nell'oratorio della chiesa di Jesus de Miramar, in uno dei quartieri migliori dell'Avana, due squadre di ragazzini si sfidano a pallone. Quelli in maglia chiara dicono: «Siamo la squadra di Juan Fabio Segundo», gli altri «la squadra di Castro». Palla al centro, come se il Campetto di ghiaia fosse la Plaza de la Revolución. Pepito, il panchinaro dei «castristi» si siede sugli scalini e domanda con aria astuta: «Sai perché il Papa viene a Cuba con un sacco di preservativi?» Questo no. «Porqué la Santa Sede». E ride. 11 gioco di parole funziona solo in spagnolo dove, pronunciando «la santa sede» si può intendere il Vaticano o constatare che «la santa cede». Padre Felipe Tejerina, parroco del luogo, non se la prende. Accarezza la riserva Pepito sulla testa e dice: «Anche questo è un segno, un segno positivo. Se il popolo inventa battute su un avvenimento, significa che ò entrato nella sua coscienza e ne abita l'immaginario. Questo, per la visita del Papa, è già un successo. Dovrei scandalizzarmi per qualche freddura? E perché? Rido anch'io». Le conosce tutte e ne racconta un'altra. «Sai perché il Papa viene a Cuba? Vuol imparare come si fanno i miracoli». Poi c'è l'ironico grido che ogni tanto si leva per scherzo nell'oratorio e potrebbe alzarsi anche domenica 25 nella piazza storica: «Fidel, Pa- pas! Fidel, Papas!», che non è un'invocazione congiunta diretta ai due personaggi storici che saranno sul palco, ma una richiesta di patate rivolta a Castro. Se mai accadrà, padre Felipe e i suoi ragazzi l'ascolteranno, perché saranno anche loro nella plaza de la Revolución, dall'alba, ad aspettare l'evento. Padre Felipe è un cappuccino spagnolo, uno dei tanti sacerdoti stranieri venuti in una terra che conosce poche vocazioni (sono in tutto ventisette i cubani attualmente in seminario, ed è già un record). E' arrivato sei anni fa, ha aperto la porta della chiesa, indossato i paramenti, celebrato Messa e si è trovato davanti venti persone in tutto. Ora, la domenica mat¬ tina, arriva a trecento. Racconta: «Un tempo venire qui era una sfida. C'erano controlli di polizia molto attenti. Segnavano il numero di targa delle auto parcheggiate fuori, i nomi di tutti quelli che facevano la comunione. Per me che arrivavo dall'Europa era un'esperienza incredibile. Ho pensato a lungo che non ci fosse speranza e mi sono anche scoraggiato. Poi è proprio vero che le vie del Signore sono infinite perché le cose hanno cominciato a cambiare, non saprei dire né quando né perché, ma ho iniziato a vedere più gente e la polizia, beh, un giorno è successo questo episodio: celebravo una Messa in suffragio di un defunto, una persona del quartiere, molto stimata, e due agenti, che erano stati mandati a controllare la situazione, sono venuti dentro, il cappello in mano, e hanno seguito il rito. Lì, molta gente ha capito che aveva meno da temere». E' una crescita lenta e dalle motivazioni misteriose. Padre Felipe la prende come un dono e non si fa domande. La gente che si avvicina a lui non avrebbe risposte. Manolo, l'anziano uomo che suona l'organo a canne, è stato uno degli ultimi ad arrivare: «Non saprei dire perché, non so dire neppure se credo o no, semplicemente quando sono qui provo un senso di pace che non ho mai provato altrove ed è una sensazione che mi piace». Definire fedeli i parrocchiani di Miramar è un eccesso. Non sanno neppure loro se hanno fede. Sentivano una necessità, erano curiosi, sono venuti. Della religione cattolica non conoscevano nulla. Padre Felipe ha insegnato con pazienza il segno della croce, per cominciare, e un catechismo semplificato. Per questo, dopo il discorso televisivo del cardinale Ortega, partito secco con «il Figlio di Dio incarnato», si è trovato davanti molte persone perplesse che chiedevano spiegazioni: «Ma in un luogo dove è vietato portare indosso un crocifisso, se qualcuno viene a chiederti il senso della croce, è già un bel segno». E ora c'è quest'altro segno: la visita del Papa e la «fiesta grande» che tutta la città vi¬ ve nell'attesa. Padre Felipe ha potuto mandare una delegazione in tutte le case per fare opera di proselitismo. Porte in faccia, solo tre. Astutamente, i suoi inviati mostravano come lasciapassare una immagine della Virgen de la Caridad del Cobre, la vera icona religiosa di Cuba, venerata da tutte le fedi, finanche nei riti voodoo, e invocata superstiziosamente pure dagli atei. Sono molte le case che hanno un altarino a lei dedicato. Uno dei maggiori scrittori cubani contemporanei, Leonardo Padura Fuentes, ricorda che la sua culla era proprio sotto quell'altare, che il suo primo ricordo di vita è stata l'immagine della Virgen e che il suo nome per esteso sarebbe Leonardo la Caridad Padura Fuentes. Che poi, dopo questo bombardamento, non sia diventato cattolico, non stupisce. Alla Virgen de la Caridad del Cobre, però, è rimasto legato, come ogni cubano, orgoglioso che il Papa vada a Santiago a renderle omaggio e ne propaghi la fama in tutto il mondo. «Questo viaggio del Papa, però, non è un miracolo della Vergine - ammette padre Felipe -, è un effetto della nuova situazione cubana. La Chiesa lo voleva nove anni fa, ma i tempi non erano maturi, oggi sì. C'è una nuova situazione economica, ci sono aperture alla religione, c'è la speranza che l'embargo americano sia agli sgoccioli. Governo e Chiesa attendono vantaggi reciproci da questa missione, chi ne avrà di più, vedremo. Io so soltanto che sei anni fa, quando sono arrivato, mi avessero detto che sarei andato in plaza de la Revolución ad ascoltare il papa che parla di Gesù Cristo, mi sarei messo a ridere, invece sono qui a preparare i biglietti da distribuire a quelli che vogliono venirci con i mezzi della parrocchia». Saranno millecinquecento, cinque volte tanto quelli che hanno mai messo piede in chiesa. «L'ultimo che è venuto a prenotarsi - dice il cappuccino - è un uomo che non avevo mai visto ^rima. Mi ha detto semplicemente: voglio esserci per dimostrare al "barba" che la piazza non è solo sua. E io gli ho dato il biglietto». Ride, della strana e artificiosa allegria di questi giorni di «fiesta grande», in cui non si capisce se chi sta scrivendo la storia di Cuba ha fatto punto e a capo o solo aperto una parentesi. L'unica cosa evidente, nel campo dell'oratorio di Jesus de Miramar, è che la squadra dei «castristi», in maglia scura, conduce per tre a zero e dispone di una difesa apparentemente imperforabile. Gabriele Romagnoli Padre Felipe: se mi avessero detto che sarei andato in plaza de la Revolución per applaudire il Santo Padre mi sarei messo a ridere Invece il miracolo è arrivato I sacerdoti hanno bussato casa per casa mostrando un'immagine della Virgen de la Caridad, vera icona religiosa dei cubani Poche sono rimaste chiuse Una Messa all'Avana: un tempo chi andava in chiesa era sottoposto a controlli

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