Interrogato da Caselli di Francesco La Licata

Interrogato da Caselli Interrogato da Caselli Sui rapporti tra boss politica e appalti ROMA. Giancarlo Caselli interroga Antonio Di Pietro, i magistrati di Caltanissetta lo vedranno a giorni, i pubblici ministeri del terzo processo sulla strage di via D'Amelio - Anna Maria Palma e Antonino Di Matteo - lo citano come teste. L'ex giudice di «Mani pulite», insomma, sembra diventato un «pezzo» importante per le molteplici indagini attualmente in gestazione in Sicilia. L'incontro fra il neo senatore e il procuratore di Palermo è avvenuto mercoledì scorso e si è alquanto protratto. Sul contenuto del lungo colloquio - al quale era presente anche il sostituto procuratore Antonino Ingroia - naturalmente vige il più assoluto silenzio. Ma è proprio la presenza del giovane magistrato a «tradire» quale possa essere stato l'oggetto dell'interrogatorio. Ingroia si occupa di indagare su tutto il contesto che negli ultimi anni ha regolato la vita di Cosa nostra e che ha spesso condizionato le scelte dei capi, prima di tutto la scelta stragista. Un contesto, delineato dal contributo di tanti collaboratori, che abbisogna di verifiche. In questo senso, è di primaria importanza la testimonianza di Antonio Di Pietro che, da magistrato inquirente, ha incamerato certamente nozioni essenziali sul groviglio - ormai acclarato - nato dall'innaturale sinergia tra imprese, politica a Cosa nostra. Parallelamente, infatti, alle grandi inchieste sulla corruzione, il pool di Milano si è trovato improvvisamente ad imbattersi su fatti, personaggi e circostanze inequivocabilmente riconducibili alla mafia. Il riferimento va soprattutto a due passaggi-chiave della cosiddetta «Tangentopoli siciliana»: il ruolo di Filippo Salamoile, fratello di Fabio (il nemico giurato di Di Pietro) ed imprenditore designato da Cosa nostra come il «grande distributore» della spesa pubblica agli «amici» e agli «amici degli amici»; il ruolo del gruppo Ferruzzi e della Calcestruzzi Spa, pesantemente coinvolti con imprenditori mafiosi di Palermo. Fu Antonio Di Pietro, come egli stesso ha dichiarato pubblicamente, a pescare il filo di Arianna della «Tangentopoli mafiosa», in tempi ancora non sospetti. Le dichiarazioni recenti di Angelo Siino, il «ministro dei lavori pubblici» di Totò Riina, poi soppiantato dal più rappresentativo ed ecumenico Salamone, confermano in pieno tutto. E, particolare non trascurabile, la signora Agnese Piraino Leto, la vedova di Paolo Borsellino, sembra assolutamente convinta che le stragi di Capaci e via D'Amelio siano da mettere in relazione con quanto il marito aveva scoperto - indagando sulla morte dell'amico Giovanni Falcone - su «Mafia & Appalti». Ce n'è abbastanza per indurre i magistrati di Palermo, quelli di Caltanissetta, a correre a Roma per «consacrare» quanto Antonio Di Pietro ha sempre sostenuto ma mai messo a verbale. Tutto ciò dopo aver ascoltato più volte Agnese Borsellino sugli ultimi giorni del marito. C'è un episodio che, alla luce di quanto si sa oggi, assume grande importanza. Si tratta di una visita ricevuta da Paolo Borsellino il giorno del suo ultimo onomastico: 29 giugno 1992. Arriva il collega Fabio Salamone e Borsellino si apparta a lungo con lui, malgrado avesse ospiti. Il colloquio si conclude con una frase di Borsellino, davanti alla porta: «Ti prego vattene, non aggiungere altro». Cosa si dissero i due magistrati? Parlarono del fratello imprenditore di Fabio? Non si sa se Salamone sia già stato sentito, e comunque è competenza di Caltanissetta. Nel contesto ipotizzato dai magistrati palermitani, tuttavia, il movente-appalti sembra prendere forma. E non solo per quanto attiene alle responsabilità mafiose. C'è tutto un movimento esterno a Cosa nostra, infatti, che deve essere interpretato ancora. Francesco La Licata

Luoghi citati: Caltanissetta, Capaci, Milano, Palermo, Roma, Sicilia