LA VITA E' BELLA di Massimo Gramellini
LA VITA E' BELLA 11 F I L M DELLA SETTIMANA LA VITA E' BELLA SI prova un certo imbarazzo a recensire un film di regime, bello o brutto che sia. Un'allergia per l'imanimismo entusiasta ci porta a diffidare di un'opera e di un artista universalmente lodati. Il rischio è di sembrare dei bastiancontrari per partito preso, ma bisogna correrlo, perché intorno all'ultimo film di Roberto Benigni si sono esercitati tutti i luoghi comuni più sconfortanti dell'ulivismo al potere: le recensioni in ginocchio dei cosiddetti critici, la propaganda incessante e gratuita su giornali e Raitv, il ricatto morale tipicamente buonista dell'argomento elevato (la denuncia del razzismo) che quasi ti obbliga a parlarne bene, se non vuoi passare per un verme senza cuore. Intendiamoci. «La vita è bella» non è una boiata pazzesca. L'idea di partenza - una favola ambientata dentro un lager nazista - vale il prezzo del biglietto. E' lo svolgimento dell'idea che non convince, perché sconta i soliti vizi dell'inesportabile cinema italiano: trama fiacca, dialoghi improbabili, montaggio approssimativo, monologhi troppo lunghi del mattatore Benigni, continue strizzatine d'occhio al sentimentalismo di facciata e, dulcis in fundo, l'immancabile bambino che garantisce ciglia umide in sala. A questi limiti abituali se ne aggiunge uno peculiare: la commistione dei generi, un errore descritto in qualunque manuale di sceneggiatura. Questo mix di commedia e tragedia non riesce a diventare tragicomico: la visione di un lager è un colpo allo stomaco che non lascia spazio per altre emozioni. Il paragone con «Il Grande Dittatore» di Chaplin è fuori luogo: là un'opera surreale di poesia, qui un senso di angoscia che tende all'arte senza raggiungerla. Massimo Gramellini «La vita è bella» è in cartellone al Lux, Empire, Eliseo LA VITA E' BELLA 11 F I L M DELLA SETTIMANA LA VITA E' BELLA SI prova un certo imbarazzo a recensire un film di regime, bello o brutto che sia. Un'allergia per l'imanimismo entusiasta ci porta a diffidare di un'opera e di un artista universalmente lodati. Il rischio è di sembrare dei bastiancontrari per partito preso, ma bisogna correrlo, perché intorno all'ultimo film di Roberto Benigni si sono esercitati tutti i luoghi comuni più sconfortanti dell'ulivismo al potere: le recensioni in ginocchio dei cosiddetti critici, la propaganda incessante e gratuita su giornali e Raitv, il ricatto morale tipicamente buonista dell'argomento elevato (la denuncia del razzismo) che quasi ti obbliga a parlarne bene, se non vuoi passare per un verme senza cuore. Intendiamoci. «La vita è bella» non è una boiata pazzesca. L'idea di partenza - una favola ambientata dentro un lager nazista - vale il prezzo del biglietto. E' lo svolgimento dell'idea che non convince, perché sconta i soliti vizi dell'inesportabile cinema italiano: trama fiacca, dialoghi improbabili, montaggio approssimativo, monologhi troppo lunghi del mattatore Benigni, continue strizzatine d'occhio al sentimentalismo di facciata e, dulcis in fundo, l'immancabile bambino che garantisce ciglia umide in sala. A questi limiti abituali se ne aggiunge uno peculiare: la commistione dei generi, un errore descritto in qualunque manuale di sceneggiatura. Questo mix di commedia e tragedia non riesce a diventare tragicomico: la visione di un lager è un colpo allo stomaco che non lascia spazio per altre emozioni. Il paragone con «Il Grande Dittatore» di Chaplin è fuori luogo: là un'opera surreale di poesia, qui un senso di angoscia che tende all'arte senza raggiungerla. Massimo Gramellini «La vita è bella» è in cartellone al Lux, Empire, Eliseo
Persone citate: Chaplin, Roberto Benigni
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