NEI CANTIERI DEL MEDIOEVO

NEI CANTIERI DEL MEDIOEVO NEI CANTIERI DEL MEDIOEVO Architetti, vescovi e cattedrali O b/n ACCONTA il cronista Rodolfo il Glabro che subito dopo il Mille, in tutta la Cristianità, i fedeli fecero a gara per restaurare o riedificare gli edifici di culto, dalle cattedrali cittadine alle chiese dei monasteri fino alle cappelle rurali. «Era come se il mondo, scuotendosi, volesse spogliarsi della sua vecchiaia per rivestirsi d'un bianco mantello di ta il monaco, senza prevedere che la sua immagine sarà 5 chiese», commenta il monaco, senza prevedere che la sua immagine sarà citata in tutti i manuali, a simboleggiare il risveglio culturale e 5 decollo economico dell'XI secolo. Ma al di là della sua pregnanza simbolica, l'osservazione di Rodolfo il Glabro va accettata in senso letterale: gli scavi degli archeologi e le analisi degli architetti dimostrano ogni giorno di più che nei decenni a cavallo del Mille l'Europa era tutta un cantiere. Finora si sapeva ben poco sul funzionamento di quei cantieri, in cui nascevano i primi esempi dell'architettura romanica. Chi prendeva l'iniziativa dei lavori, chi reperiva finanziamenti e materiali, chi progettava gli edifici e chi trattava con le maestranze? Si può parlare, per quest'epoca, di architetti, in grado di padroneggiare con competenza tecnica e artistica la progettazione e l'esecuzione di programmi edilizi complessi, o dobbiamo piuttosto immaginare un continuo, faticoso compromesso fra committenti colti, ma privi di competenza specifica, e capimastri e muratori esperti nel mestiere, ma privi d'una visione d'insieme? A queste domande risponde ora Carlo Tosco, docente di Storia dell'Architettura al Politecnico di Torino, nel volume Architetti e committenti nel romanico lombardo. Al centro dell'analisi è in primo luogo la committenza: a lasciare memoria di sé nella documentazione e nelle lapidi sono soprattutto i vescovi, ansiosi di dare nuova dignità alle proprie cattedrali, e che nell'Impero degli Ottoni e poi dei Salii si trovavano nella posizione più felice per reperire gli indispensabili finanziamenti. Potevano infatti sfruttare la ricchezza crescente dei mercanti e degli artigiani cittadini, non ancora difesi da corporazioni né organizzati in Comune, oppure spillare fondi all'imperatore, che sull'appoggio di quei vescovi fondava il suo potere e non poteva mostrarsi troppo sordo alle loro richieste. C'era anche chi in questo modo si metteva nei guai, come il vescovo di Verona Raterio, che ottenne un finanziamento da Ottone I per il restauro di San Zeno, e si vide poi messo sotto accusa per il modo in cui aveva gestito quei soldi; ma nell'insieme lo sforzo edilizio è certamente uno dei punti di forza dell'episcopato durante quella vera e propria età dell'oro che fu, agli occhi dei contemporanei, la prima metà dell'XI secolo. Lo strapotere dei committenti lascia nell'ombra gli esecutori, che pure esistevano e disponevano di notevoli competenze. A mettere in atto i progetti dei vescovi non erano semplici capimastri ignoranti, ma uomini di scienza come quel Maginardo, «in arte architectonica optime eruditus», che il vescovo d'Arezzo mandò a Ravenna per studiare la basilica di San Vitale, cui voleva ispirarsi nella riedificazione del duomo aretino; tornando da Ravenna, l'architetto riportò addirittura un modello della basilica, non sappiamo se in forma di rilevamento cartaceo o di vero e proprio modellino in legno. E' raro, però, che il lavoro di questi maestri sia stato ritenuto degno di memoria: per un vescovo come Meinwerk di Paderborn, che seppellì l'architetto della sua cattedrale comandando di effigiare sulla pietra tombale gli strumenti del lavoro edilizio, la cazzuola e il martello, ce n'erano altri cento pronti in perfetta buona fede ad assumere da soli, davanti ai posteri, la gloria del lavoro che avevano concepito e finanziato. Ma nella seconda metà dell'XI secolo le cose cambiano, soprattutto in Italia. La pace della società cristiana è infranta dalla lotta fratricida fra Impero e Papato; e nello scontro fra i due poteri supremi, dove la posta in gioco è proprio il controllo sull'elezione dei vescovi, si appannano il prestigio e l'autonomia dell'episcopato. Ne approfitteranno gli abitanti delle città, sempre più ricchi e sempre più numerosi, per sfuggire alla tutela dei vescovi e organizzarsi in Comuni, mentre nel mondo del lavoro la coscienza di sé dei produttori si manifesta nella formazione di corporazioni. Le conseguenze di questi sconvolgimenti si fanno sentire anche nei cantieri, producendo tensioni fra committenti e maestranze: quando i canonici di Ratisbona assumono per il restauro della loro chiesa una squadra di muratori milanesi, rimangono atterriti dalla prepotenza e rissosità di quegli operai, al punto di spedire una protesta all'arcivescovo di Milano. Ma è soprattutto il ruolo dell'architetto a imporsi alla ribalta in queste mutate circostanze. I maestri, non più i vescovi, cominciano a firmarsi nelle lapidi, celebrando senza falsi pudori la propria competenza tecnica, fino a poco tempo prima considerata secondaria se non addirittura servile. Sullo scorcio dell'XI secolo, per la prima volta, non solo conosciamo i nomi dei responsabili d'un grande cantiere, ma possediamo su di loro una documentazione sufficiente per ricostruirne la personalità artistica: sono Lanfranco e Wiligelmo, gli artefici del Duomo di Modena. Dopo la lunga indifferenza all'individualità creatrice che sembrava caratterizzare l'Alto Medioevo, la civiltà medievale s'indirizza ormai senza equivoci verso quell'individualismo che rimarrà poi sempre una caratteristica di fondo della cultura dell'Occidente. Alessandro Barbero ARCHITETTI E COMMITTENTI NEL ROMANICO LOMBARDO Carlo Tosco We//o pp. 336 + 96 ili. b/n L 68.000 Un saggio di Carlo Tosco ripercorre il rapporto tra «Architetti e committenti nel romanico lombardo». Lo pubblica l'editrice Viella Qui accanto: il duomo di Modena

Persone citate: Alessandro Barbero, Carlo Tosco, Wiligelmo

Luoghi citati: Arezzo, Europa, Italia, Milano, Ravenna, Torino, Verona