LE DONNE DI ALGERI CONTRO I SIGNORI DELLA GUERRA

LE DONNE DI ALGERI CONTRO I SIGNORI DELLA GUERRA LE DONNE DI ALGERI CONTRO I SIGNORI DELLA GUERRA La testimonianza della scrittrice e regista Assia Djebar O stessa mi ritrovo a essere in contraddizione. Teoricamente non lo posso sopportare, eppure a momenti dò l'impressione di scusare l'integralismo. (...) Ciò mostra semplicemente che il contributo degli intellettuali, non soltanto delle donne, è ancor più irrisorio e non può influire sulla vita pubblica dei Paesi del Terzo mondo». (...) Sono ben cosciente che la denuncia non serve a niente». Sembrerebbero parole piene di sfiducia, pronunciate da chi, essendo nato in Algeria nel 1936 ed avendo assistito alla conquista dell'indipendenza dalla colonizzazione francese nel 1962, non veda alcuna possibilità di salvezza per il proprio Paese, squassato dagli orrori della guerra civile che vi si consuma dal 1992. Sembrerebbe che tutto sia perduto. E invece, Andare ancora al cuore delle ferite della sociologa Renate Siebert, ritrae la vita e le opere della scrittrice, regista e storica algerina Assia Djebar, puntando l'attenzione sulla sua incrollabile fede gj, pnella forza della memoria e nel recupero della storia attraverso la letteratura. Quello che interessa a Siebert, già autrice di numerosi saggi tra cui alcuni sulla mafia (H Saggiatore, 1994) e sulla vita delle donne in Calabria (Rosenberg &• Sellier, 1991) è definire quanto le donne che vivono in società dominate dalla cultura del silenzio hanno da raccontare e la grande Assia la accontenta, anche se lei, sorniona, risponde e non risponde. Preferisce siano i fatti a parlare. E allora viene pazientemente ricostruita la storia di Fatima-Zebra Imalayène, che a venturi anni, all'uscita del suo primo romanzo (La soif, edizioni Juillard, 1957) trasse lo pseudonimo Djebar (che in arabo significa «l'intrattabile») da una sura del Corano ed ebbe la fortuna, rispetto alle sue coetanee, di continuare a studiare fino a diventare la prima donna algerina ammessa all'Ecole Normale Superieure di Sèvres. Possibile che mia donna politicamente attiva femminista, autrice di otto romanzi, svariati racconti, pièces teatrali, poesie, sceneggiature e film (La nouba des femmes du Mont Chenoua vinse nel 1979 il Premio della critica intemazionale alla Biennale di Venezia) possa affermare sconsolatamente: «Credo che (...) questo stato di guerra civile che non ha il coraggio di dirsi tale, di guerra larvata, debba in qualche modo essere vantaggioso per i signori della guerra cioè per chi sta nelle istituzioni, e da questo stato di violenza permanente dell'Algeria ricava dei benefici, per non dire dei traffici. Penso dunque che questo stesso potere non cerchi sinceramente di ritrovare uno stato di pace»? E' possibile, perché ai rapidi resoconti sulle sue scelte di vita (due matrimoni, figli, esili volontari in Tunisia, Marocco, Stati Uniti e a Parigi, cattedre all'Università di Algeri e al Center for French and Francophone Studies della Louisiana) si inframmezza la lucidità di pensiero sulla situazione politica del suo Paese, per il quale, anche se da lontano, continua a battersi: «Ho attraversato la guerra d'Algeria dai diciotto ai ventiquattro anni. Se fossi stata nel mio Paese, penso che avrei fatto come molte altre e sarei entrata nella resistenza, dove sarei stata torturata (...). E invece ero già a Parigi (...). Ma con i miei nomadismi, ho la sensazione di essere rimasta in lotta, anche vedendo la sofferenza e quanto cer- tuni la pagassero, pur senza perdere una specie di romanticismo». E il romanticismo cui fa riferimento Assia «l'intrattabile» non può che essere la fede nella parola scritta, raccontata dalle donne della sua infanzia e da quelle incontrate nei villaggi d'Algeria: «Le donne che soffrono (o forse chiunque soffre) se chiedi loro di parlare di sofferenze antiche, finiscono per diventare esse stesse creatrici delle loro parole». E parlare della sofferenza vuol dire mettersi in gioco, accettare le contraddizioni della realtà e, a dispetto della sfiducia, denunciarle: «Penso che molte donne, purtroppo giovani e giovanissime, siano state ammazzate perché non volevano portare il chador, altre perché lo portavano». Avremmo preferito che l'intervistatrice avesse dato un taglio meno intimistico a questa approfondita conversazione non sempre trascritta con chiarezza, ma per fortuna, la persona che nella fattispecie si racconta è prima di tutto un'intellettuale e, in un secondo tempo, una donna. Chiara Simonetti ANDARE ANCORA AL CUORE DELLE FERITE Renate Siebert Lo Tartaruga pp. 238. L. 24.000 Assia Djebar, scrittrice e regista algerina, si racconta in un'intervista alla sociologa Renate Siebert, pubblicata da La Tartaruga