I miei Rushdie, Borges e Fangio

I miei Rushdie, Borges e Fangio I miei Rushdie, Borges e Fangio DALLA PRIMA PAGINA |] stanco di essere presenI tato come un cane nascosto sotto i mobili, spaventato dai botti di Capodan no. Ha confessato di andare spesso al cinema, di uscire per comprarsi vestiti, ha il tempo di innamorarsi, di scrivere, di andare tranquillamente in bagno e perfino di bere qualcosa con il suo amico Martin Amis. [...] Quando l'incontro è terminato, sono stati rinchiusi in una sala vicina dotata appena di caffè e acqua minerale e permanentemente sorvegliati - anche quando andavano al gabinetto - dai custodi argentini dello scrittore. I telefoni cellulari furono sequestrati e non fu consentito di stabilire nessun collegamento con l'esterno. Dopo aver conosciuto questi particolari, mentre uscivo di casa ho avvisato mia moglie di non preoccuparsi nel caso che fossi rimasto fuori per tutta la notte. Mi sono messo in tasca non so quante sigarette e due confezioni di aspirina, ho tenuto il libro di Rushdie bene in vista e mi sono detto che se mi avessero maltrattato avrei potuto almeno scrivere un articolo e venderlo all'estero. Ma purtroppo tutto è stato terribilmente banale. Non ci hanno bendato gli occhi, l'albergo era quello che mi avevano anticipato e anche se abbiamo dovuto aspettarlo per mezz'ora, Rushdie è arrivato camminando a lunghi passi seguito da vicino dai guardaspalle della Federai. Dapprima abbiamo parlato in francese, ma poiché ero il solo poveretto che non se la cavava con l'inglese è stata fatta intervenire una brava interprete e siamo tornati al francese soltanto per permetterci, come succede sempre al momento dei saluti, una cena a Ficcadilly Circus con Martin Amis, autore di Territori londinesi, e con Ian McEwan, quello di Cani neri. Sapevamo che non era molto probabile, ma spesso noi scrittori ci salutiamo così. [...]. Scrittore geniale uomo insensato Quando ha capito che stava per morire, Borges deve aver provato un irrefrenabile desiderio di ritrovare la propria lontanissima gioventù a Ginevra. Da un giorno all'altro chiuse la casa di calle Maipù, a Buenos Aires, congedò Fanny, la governante che lo aveva accudito per oltre trent'anni, e sposò Maria Kodama, che era la sua assistente, il suo lazarillo, la sua amica da più di un decennio. Come aveva fatto Julio Cortazar a Buenos Aires due anni prima, Borges andò a guardarsi nello specchio che rifletteva i giorni più ingenui e radiosi della sua gioventù. Cortazar, invece, aveva bisogno di affacciarsi allo sporco Riachuelo che Borges aveva mistificato in poesie e racconti, nei quali gli immaginari compadritos deìl'arràbal assumevano un destino da tragedia greca. Curiosa simmetria, questa dei due più grandi scrittori di questo Paese: Cortazar, spaventato dal peronismo e dalla mediocrità, decise di vivere in Europa a partire dalla pubblicazione dei suoi primi libri, nel 1951. Fu a Parigi che assunse la propria condizione di latinoamericano, al di là de ■ meschino fatto di essere argentino. Borges, viceversa, non potè mai vivere da nessun'altra parte. Forse perché era cieco sin da molto giovane e si era inventato una Buenos Aires esaltante ed epica che non era mai esistita. Un universo in cui sublimava le frustrazioni e il perduto onore di una classe che aveva costruito un Paese senza futuro, un'azienda prospera e senz'anima. In verità, Cortazar - timido e schivo - non aveva osato disturbarlo e temeva che le differenze politiche, accresciute dalla distanza, fossero insormontabili. Lui doveva tanto a Borges come chiunque di noi, o anche di più, perché l'autore dell'Aleph gli aveva pubblicato il primo racconto nella rivista Sur. Molte volte, a Parigi, parlavamo di Borges. Quando usciva uno dei suoi libri o circolava qualche sua tremenda dichiarazione di appoggio alla dittatura, Cortazar sosteneva - come tutti noi che lo ammiravamo - che bisognava giudicare lo scrittore geniale da un lato, e l'uomo insensato dall'altro. Bisognava dissociarli per comprenderli, andare contro tutte le regole del ragionamento per crearne un'altra che ci consentisse di amarlo e di sentirlo come nostro malgrado lui stesso. [...] Allo stesso modo che Cortazar aveva accettato il proprio desti- no latinoamericano ma non poteva separarsi da Parigi, così Borges viveva a Buenos Aires perché credeva che così sarebbe stato più vicino all'Europa. Prima di morire, entrambi andarono a compiere il gioco degli specchi e delle nostalgie: uno nei cortili di Barracas e sull'acciottolato di San Telmo. L'altro nei giardini innevati di Ginevra dove aveva scritto in latino i suoi primi versi e in inglese il suo primo manuale di mitologia greca. Borges se n'andò a morire lontano da Buenos Aires e chiese di essere sepolto a Ginevra, come prima Cortazar aveva preferito essere seppellito a Parigi. Fu, forse, un gesto estremo di sdegno nei confronti della terra in cui aveva immaginato indomiti compadritos che scoprivano la chiave dell'universo, gau- chos che temevano il castigo dell'eternità, califfi che leggevano il destino sulla faccia di una moneta cinese, biblioteche circolari che decifravano il segreto della creazione. [...] Il meccanico di Balcarce Juan Manuel Fangio era l'idolo tranquillo, l'uomo senza televisione, uno che sapeva quale fosse la propria grandezza senza bisogno di andarlo a gridare ai quattro venti. Sembrava uno di quei solitari che quando escono dalla loro tana non smettono di parlare, quasi un risarcimento per tutto quel silenzio. Prudente come pochi nella sua professione, lasciò le piste coperto di gloria, non si fece una famiglia, non si mise in politica e se per caso gli toccò farlo fu sempre attento a rimanere fuori dal potere. Gentleman austero e distante, nessuno lo conosceva per davvero. Dormiva dieci ore al giorno, era timido con le donne, non fumava, non beveva, non leggeva, non era particolarmente generoso ma gli piaceva dare consigli utili su come tenere la strada con una macchina. Non aveva il fascino di Oscar Gàlvez né la presenza dei personaggi destinati alla mitologia. Semplicemente, era stato il migliore, e quarant'anni dopo lo era ancora. Fingeva di essere modesto, come conviene ad un uomo di tatto: «Sono famoso all'estero perché il mio nome è facile da pronunciare in tutte le lingue», diceva. In Francia i telegiornali di tutte le reti mandarono in onda montaggi delle 24 corse vinte e di dichiarazioni di Fangio che poneva l'amicizia al di sopra dei risultati sportivi. Stirling Moss, che fu il suo eterno secondo, lo raffigurava bene: «Era straordinario, la sua forza consisteva nella sua capacità di concentrazione e in quella rara facoltà di formare con l'auto un corpo unico. Non era un tecnico ma un artista del volante. [...]». Cominciò nel 1938 con una Chevrolet e infranse l'egemonia delle Ford, che sembravano imbattibili. Poi, in Europa, vinse con quasi tutte le marche. Maserati, Alfa Romeo, Ferrari, Mercedes. Nessuno avrebbe potuto sostenere che era la macchina a volare e non il pilota. Tutte le volte che non si coronò campione, fu secondo a causa di qualche contrattempo, perché il caso si era imposto sul suo genio. Il modo di dire «veloce come Fangio» passò nel linguaggio popolare. Non aveva carisma sociale ma poteva contare su una enorme forza interiore; con gli amici era solito raccontare aneddoti divertenti come quello in cui un taxista di Buenos Aires, che non lo aveva riconosciuto; gli grida: «Impara a guidare, schiappa!» [...] Lui era sulle figurine Starosta che collezionavamo all'inizio degli Anni Cinquanta, era sulla copertina di £7 Gràfico e nelle riviste italiane. Lontano dall'ambiente, per l'età o per timidezza, aveva lasciato il podio per rifugiarsi in uno stabilimento della Mercedes Benz Argentina. Era un personaggio dal comportamento gradevole, presentabile, molto diverso da Carlos Monzón che morì per non saper guidare un'auto a centoquaranta. Impossibile paragonarlo al Maradona chiassoso ed esaltato. In fondo era un uomo di campagna, un meccanico di Balcarce. I...] Osvaldo Soriano Una galleria di passioni tra Buenos Aires e Parigi: ramare per il padre, sognatore scontento, l'esilio tormentalo, il rimpianto per un gioco del calcio mitico