«Di Pietro doveva morire» di Francesco La Licata

«Di Pietro doveva morire» Caltanissetta: il senatore sarà sentito presto come teste per la strage di via D'Amelio «Di Pietro doveva morire» Ipm: negli stessi giorni di Borsellino COSA NOSTRA IN TANGENTOPOLI CALTANISSETTA DAL NOSTRO INVIATO L'aula deserta, le gabbie vuote. Questo terzo stralcio del processo per la strage di via D'Amelio sembra interessi soltanto al vecchio boss Mariano Agate, unico imputato presente, convinto di venire a collezionare la seconda assoluzione consecutiva dopo quella per il «botto» di Capaci. In effetti non sembra questo - cominciato ieri e già rinviato - il pezzo forte che dovrebbe chiudere il cerchio e spiegare chi e perché volle la morte di Paolo Borsellino. La soluzione di quello che comincia a prendere tutti i connotati di un altro mistero di Stato è ancora lontana, ma l'inchiesta della procura di Caltanissetta contiene in sé il seme che potrebbe portale a conclusioni clamorose. L'ultima novità è da prima pagina, nessuno l'ha dichiarata ufficialmente ma è contenuta nell'elenco dei testi presentato dai pubblici ministeri Anna Maria Panna e Antonino Di Matteo. Scorrendo i nomi, infatti, non può sfuggire quello di Antonio Di Pietro. Perché teste per la strage di via D'Amelio? Semplice: l'allora pubblico ministero di «Mani Pulite» nell'estate del 1992 era nei «pensieri» di Cosa nostra e di mandanti occulti che avevano deciso di farlo fuori insieme con Paolo Borsellino. In una paiola: le strade Di Pietro e dei magistrati antimafia di Palermo ad un certo punto si intersecarono pericolosamente e, dopo Capaci, il pm di Milano e Paolo Borsellino dovevano essere uccisi quasi in contemporanea. La notizia non è campata in aria. Esiste una relazione dei carabinieri dei Ros di Milano (17 luglio 1992, due giorni prima della strage di via D'Amelio), misteriosamente mai giunta a Palermo, che rivelava l'esistenza di un piano criminale già messo in cantiere. Una tragica conferma sarebbe venuta il 19 con l'eccidio di Borsellino e della scorta: l'enormità dell'avvenimento, forse, avrebbe poi indotto Cosa Nostra ad astenersi dalla «fase due» in direzione di Antonio Di Pietro. Non è - quello del 17 luglio - l'unico allarme raccolto dagli investigatori. Qualche settimana prima un ufficiale dei carabinieri aveva rivelato a Borsellino di essere stato informato da un confidente (uno dei fratelli D'Amia di Terrasini, parenti di Tano Badalamenti) che si preparava qualcosa contro di lui. Un allarme che forse non avrebbe dovuto essere sottovalutato, vista la provenienza. Gli ufficiali e i sottufficiali in questione, saranno sentiti a Caltanissetta: oltre a De Donno, sono stati convocati 0 maggiore Vincenzo Alonzi (Ros Milano), il capitano Giu¬ seppe Campaner (Ros Milano) e il brigadiere Gianfranco Cava (stazione ce di Cernusco sul Naviglio). Ma cosa c'entra «Mani Pulite» con la mafia? Questo è un filone, per tanto tempo tenuto rigorosamente separato, che negli ultimi tempi specialmente dopo le collaborazioni di Giovanni Brusca ed Angelo Siino sempre più spesso si sta dimostrando «leggibile» con una chiave nuova. Ci sono, tra inchieste apparentemente molto lontane, punti di contatto. I magistrati di Caltanissetta hanno già acquisito agli atti dell'indagine «via D'Amelio quater», le carte che la procura di Milano aveva mandato a Brescia per la parte che riguardava il complotto mafioso contro Di Pietro. E si riservano, i pubblici ministeri nisseni, di interrogare il sen. Di Pietro «in ordine ai motivi e al contenuto di contatti e colloqui, anche telefonici, intrattenuti con il dott. Falcone ed il dott. Borsellino nel 1992». In sostanza, Falcone e Borsellino seguivano con attenzione la pista degli appalti. Muore Falcone dopo l'assassinio di Salvo Lima (coinvolto nella «Tangentopoli siciliana») e Borsellino cerca il movente di quella strage anche nell'intricato imbroglio di mafia, affari e appalti. Fantasie? L'inchiesta è ancora all'inizio, ma è già avvenuto qualcosa che promette sviluppi interessanti. I magistrati alludono alla collaborazione di Angelo Siino, il cosiddetto ('ministro dei lavori pubblici» di Salvatore Riina. Lui conosce perfettamente il meccanismo che regolava la distribuzione di appalti e tangenti. E Siino non fa mistero del fatto di poter dimostrare come la «Tangentopoh siciliana» non fosse semplicemente una «piccola emanazione locale» del fenomeno, ma un blocco unico col grande «collettore nazionale». Sostiene Siino che Cosa Nostra fosse «attore protagonista» della grande abbuffata, esattamente con gli stessi diritti che potevano vantare le grandi imprese e i partiti politici. Ed ha illustrato, Siino, come grandi imprese nazionali fossero gravemente compromesse con la mafia. Ha raccontato della «sinergia» esistente fra il colosso Ferruzzi e i Buscemi, mafiosi di Boccadifalco. Rac¬ conta di riunioni avvenute nella sede della «Calcestruzzi Spa» di via Mariano Stabile, a Palermo, per la spartizione degli appalti alla presenza di Antonino Buscemi. Ed è chiaro quando parla della fusione tra il «colosso» e i mafiosi: «Buscemi si vantava di poter avere rapporti con Gardini e Panzavolta, segnalatomi non solo come dirigente della "Calcestruzzi", ma come uomo di fiducia degli stessi Gardini, colui attraverso il quale "passavano tutte le segrete cose"». E ancora: «Negli Anni 80 il Gruppo Gardini si era prestato a partecipare a società intestate ai Buscemi e ad altri mafiosi, tra cui la Calcestruzzo Arenella, al fine di evitare che i loro beni potessero essere sottoposti a sequestro nell'ambito dell'applicazioone di misure di prevenzione». Siino, dunque, diventa prezioso per la ricostruzione del quadro generale che porta alle stragi del 1992. Il collaboratore ha già fatto intendere che il movente va ricercato negli appalti. Racconta che in carcere, luglio 1992, proprio subito dopo lo scoppio in via D'Amelio, un mafioso che stava in cella con lui ebbe a commentare: «Chi glielo faceva fare a Borsellino di andarsi ad immischiare nella storia degli appalti»? Ed è testimone di quel clima di ostilità di un certo gruppo di potere nei confronti di alcuni magistrati particolarmente zelanti. Fu proprio Siino (allora libero) a «consigliare» a Borsellino, villeggiante a Marinalonga, di cambiare sito perché quella casa «non dava garanzie di sicurezza». Che detto da lui era più di un consiglio. Cosa si dissero Di Pietro e Borsellino? Perché il giudice palermitano volle sentire tutti gli ufficiali del Ros che avevano collaborato alla stesura del rapporto su «Mafia & Appalti»? Perché disse al suo amicocollega, Antonio Ingroia, che riteneva importante il fatto che tra gli appunti di Giovanni Falcone, in cima alla lista, vi fosse il riferimento agli appalti? L'inchiesta è appena partita: una prima spinta potrebbe venire da ciò che dirà il sen. Di Pietro. Sarà sentito prestissimo. Francesco La Licata Una relazione dei Ros e rivelazioni di Siino legano la pista degli appalti agli attentati Il senatore Di Pietro. Sopra: Paolo Borsellino e una scena dell'attentato in via d'Amelio