Nel villaggio delle mine assassine

Nel villaggio delle mine assassine Dalla regione del Nord dell'Iraq è partita la maggior parte dei curdi sbarcati in Italia Nel villaggio delle mine assassine «Abbiamo solo un sogno, fuggire dal Kurdistan» SULAIMANIYA (Kurdistan) DAL NOSTRO INVIATO «Ci fosse stata già la neve...». Sardar sposta la coperta di lana grezza e le mani tastano il vuoto. A 14 anni, le gambe non le ha più. Fosse già caduta la neve, solo una settimana fa, quella mina sarebbe stata sepolta, addormentata, finalmente inoffensiva. Ma non c'era ancora neve quel giorno, quando Sardar è sceso a Chamchamal per comprare cavoli e pane. La madre è morta, il padre vende zucchero e sapone alla bancarella dei bazar, rientra la sera. Al villaggio, alle cinque sorelle e ai due fratelli deve badare Sardar, l'ometto di casa. Con Hemin, l'amico, sta attraversando un campo, è la solita strada di tutte le mattine. A terra, tra i sassi, c'è qualcosa che brilla. Hemin e Sardar si avvicinano, cos'è? Herriìn la sfiora appena. Sardar racconta e dice l'unica parola italiana che conosce: «Valmara», il nome della perfida mina, robaccia di casa nostra. Hemin l'ha sfiorata, Hemin esplode con lei, diventa coriandoli di morte. Hemin non c'è più. «Mi si è spenta la luce...». Sardar ricorda quel che può e si chiude gli occhi neri con le mani bendate. Si è svegliato tre ore più tardi all'ospedale di «Emergency», qui a Sulaimaniya. Senza più gambe. Il suo contributo alla storia, il contributo di un ragazzino alle cronache dal Kurdistan impazzito, senza pace, con una guerra che nessuno ha dichiarato epperò continua, si nasconde nei 10 milioni di mine lasciate da Saddam Hussein, oppure arriva all'improvviso, da cielo o terra, con le imboscate dell'esercito turco che sconfina per centinaia di chilometri e bombarda fin quaggiù, nel Nord Iraq. A Sardar, e lo sa, è andata ancora bene. Ora i volontari di «Emergency» lo cureranno, avrà le protesi, camminerà, ma è un figlio di questo Kurdistan e deve pagare il suo prezzo. E' stata una mina, poteva essere una granata turca, o un proiettile vagante in uno dei troppi scontri tra fazioni curde, tra il Pdk, che controlla il Nord, e il Puk, che controlla il Sud. E' il Kurdistan. C'è la neve, adesso, attorno a Sulaimaniya. C'è la neve e la guerra rallenta, si raffredda, qui la chiamana «la tregua del gelo». L'esercito turco non potrà scendere via terra per le incursioni. I «peshmerga», i combattenti del Pdk e del Puk, staranno nelle loro guarnigioni, chiusi nelle città. Ma la tregua del gelo resta fragile, durerà poco e servirà a niente, basta una mina a farla saltare. Dopo, tutto sarà come prima, come sempre, mine, incursioni e bombe, le minacce dei turchi e degli iracheni, gli scontri, i feriti che arriveranno all'ospedale di «Emergency». Quanto basta per aver voglia di fuggire, andarsene da un futuro che promette la solita, schifosa guerra che nessuno vuole ammettere. Gran parte dei curdi arrivati in Italia sono partiti da qui, da queste montagne. «La loro è voglia d'Europa - dice Gino Strada, il medico milanese che ha inventato "Emergency" -, è la voglia di scappare da questa realtà di guerra, una guerra dove tutti sono contro tutti». «Welcome in Xurdistan!», annuncia con gioia l'autista. Dal confine con la Siria e la Turchia, passato il fiume Tigri, 600 chilometri e tre giorni di jeep nella neve per arrivare a Sulaimaniya. Seicento chilometri di kalashnikov e posti di blocco, quelli gialli del Nord controllato dal Pdk, quelli verdi del Sud presidiato dal Puk. Ad ogni posto di blocco, e qui si capisce la lotta per il controllo del territorio, si paga il dazio. Dal confine con la Turchia, a Nord, il Pdk incassa 600 mila dollari al giorno, una cifra enorme in un Kurdistan dove un medico guadagna 15 dollari al mese. Pdk e Puk si combattono il territorio e le frontiere, più controlli e più incassi. Litigano anche sul Pkk, il partito dei lavoratori, che per il Pdk sono terroristi da sconfessare, combattere e consegnare alle galere turche, e per il Puk no, al massimo sono curdi che sbagliano. Litigi che diventano scontri armati nelle città, nei bazar, attorno ai posti di blocco. Quando non c'è la neve, altri, nuovi, troppi feriti per «Emergency». La voglia di Europa li fa scappare, e sarebbe scappato anche Sardar se non avesse i sette fratellini e il padre che vende saponette al bazar. Non scappano dalle città, in Italia non ne sono arrivati. Scappano dai villaggi di montagna, dove la miseria è ancora più misera, dove un'incursione dell'avia¬ zione turca lascia i morti e distrugge le case di tufo e argilla. Nelle sedi delle organizzazioni internazionali con base a Sulaimaniya, ripetono sempre la stessa triste canzone: «In Occi¬ dente, in Europa, nessuno se ne vuole occupare. Sembra proprio che il popolo curdo non abbia amici». Venticinque milioni di curdi abbandonati al loro destino infame. Se l'Iraq di Sad- dam Hussein è sotto embargo internazionale, il Kurdistan lo paga due volte: dall'Iraq arriva nulla, né benzina né una medicina, un pacco di biscotti o il latte in polvere. Il poco che c'è scivola fin qui di contrabbando, un pacchetto di sigarette un dollaro, un lusso anche per un medico d'ospedale. I curdi, un popolo di nomadi, mica di scienziati. Pastori rimasti senza terra, la possono soltanto guardare e maledire. Pascoli e terra sono diventati il territorio delle mine, e gli specialisti inglesi del «Mag» fanno festa quando ne trovano un paio alla settimana. Contadini senza contado, pastori con le greggi e senza una pezza di pascolo. Che ci stanno a fare, in Kurdistan, ad aspettare un aereo turco, o che il villaggio venga preso in mezzo durante uno scontro tra fazioni, o una mina che esplode? Andarsene. Scendere a Sulaimaniya e chiedere a Gino Strada: «Dottore, ci aiuti ad arrivare in Europa?». Una volta la migrazione più diffusa era dalla frontiera con la Turchia, poi la Grecia, su fino alla Polonia e infine il passaggio clandestino in Germania Una volta. Venduti la casa e i tappeti, le pecore e i montoni, messi assieme 500 dollari, ora piccoli gruppi di disperati si ritrovano nell'immensa periferia di Istanbul. E diventano esodo. Avrebbero preferito la fuga anche Bakir, Shler e Shema Hassan, padre, madre e figlia di cinque mesi. Nel villaggio di Quaenja erano a far legna in un bosco con poca neve, ieri pomeriggio. Un passo, un niente, e il piede sinistro di Bakir tocca una mina. Un'ora dopo la famiglia Hassan è all'ospedale di «Emergency». Il padre ha il braccio destro che pende e la gamba sinistra che è un brandello, l'amputeranno entro sera. Lo choc deve essere talmente violento da narcotizzare il dolore: dalla barella del pronto soccorso, Bakir si morde i baffi neri e tenta di guardare due letti più a destra, dove c'è la moglie con il ventre squarciato, pieno di schegge. La figlia è in una brandina nell'angolo, la testa aperta fino al collo, il chirurgo che già la cuce. Eccolo, il Kurdistan. Una mina una famiglia. Anche gli Hassan di Quaenja hanno scritto la loro tragica e autentica pagina curda, da bravi e sciagurati cittadini curdi hanno pagato la loro penale. Avanti i prossimi. E meno male che c'è la neve e le mine dovrebbero dormire. Ma si spostano, le maledette, con pioggia e gelo scivolano dalla montagna e capita quel che è successo agli Hassan. Ogni giorno. Perché anche questo è il Kurdistan, il Kurdistan di Sardar il ragazzino che adesso sta sulla carrozzina a rotelle e si stringe in un vecchio montgomery marrone e spelacchiato. Comincia a guardare con una certa curiosità i compagni di stanza, si studia quello che chiamano «Schumacher»: non ha le gambe, ha le due protesi, ma cammina veloce e la sera gli porta sempre riso e fagioli. Gli occhi di Sardar, due punti nerissimi, sembrano truccati. Che ti aspetti dal futuro? Alla domanda gli occhi si accendono: «Le mie due gambe finte!». Ha pianto tanto Sardar, ma il suo amico Hemin è morto e lui è qui da «Emergency» ad aspettare le protesi. «Sono fortunato», dice con un sorriso dolce. Perché la fortuna, nel disperato Kurdistan, è avere due gambe finte. Giovanni Cerniti Oltre ai dieci milioni di ordigni disseminati da Saddam Hussein ci sono le imboscate dell'esercito turco Un medico italiano «Sono 25 milioni Ma in Occidente nessuno si vuole occupare di loro» E' una guerra non dichiarata, ma terribile, dove tutti sono contro tutti. E le fazioni combattono per il controllo delle frontiere REPORTAGE J Viaggio nel Paese che non c'è Membri di una delle fazioni armate che combattono nel Kurdistan Una famiglia che vive nel Kurdistan iracheno Sardar, 14 anni, ha perso le gambe su una mina: «Che mi aspetto dal futuro? Due gambe fìnte»

Persone citate: Gino Strada, Saddam Hussein, Schumacher