Le fantastiche «Fate» d'un Wagner ventenne
Le fantastiche «Fate» d'un Wagner ventenne L'opera in prima italiana a Cagliari Le fantastiche «Fate» d'un Wagner ventenne Troppe le citazioni dei grandi maestri Bella e creativa la regia diMontresor CAGLIARI. Da qualche anno il teatro Comunale di Cagliari abbandona periodicamente U grande repertorio per attirare l'attenzione della critica e del pubblico su partiture poco eseguite. L'altra sera, per inaugurare la stagione lirica, ha proposto «Le fate», prima opera di Wagner mai rappresentata in Italia. Lo spettacolo era degno dell'occasione: Beni Montresor ha montato un allestimento sfarzoso, dove il palcoscenico in materiale lucido rifletteva i costumi delle fate, con copricapi in foglie d'argento, giardini blu e architetture fantastiche, rossi incendi, apparizioni, fantasmi, luoghi deserti, orridi di montagna. Siamo nel pieno dell'opera romantica tedesca che il giovane Wagner eredita da Weber e nella quale riversa la vicenda della donna-serpente tratta dalla fiaba di Carlo Gozzi: a vent'anni il musicista scrive un libretto labirintico in cui è difficile districarsi tra avvenimenti reali, scene fantastiche, narrazioni, antefatti raccontati al momento sbagliato, e così via. Ma in questo ginepraio compare già un senso innato del teatro: il primo atto, ad esempio, è tagliato bene nell'organizzazione dei contrasti, delle distensioni e dei punti culminanti, secondo un'altimetria che lo spettacolo di Montresor ha reso con grande elasticità di scelta e di variazioni. In questo primo atto la musica non è gran che. Ma se l'immaturità del compositore è evidente, e Weber è imitato senza inventiva, colpiscono alcuni tratti caratteristici: la vocazione alla grande dimensione che, dilatando, le forme porta l'atto a settantacinque minuti; un'orchestra trattata con vivo senso del colore; il rifiuto nettissimo dell'opera italiana che in seguito feconderà il teatro di Wagner attraverso la melodia di Bellini, ma qui il ragazzo tedesco allontana con sdegno. Nelle «Fate» l'espressione è quasi sempre generica, e oscilla tra suoni «fatati» di strumentini e il tormento di recitativi contorti, talvolta aggressivi. Ma quando il testo tocca il demonico, come nel racconto di Gernot della strega assassinata, ci si sorprende di come il giovane Wagner sia capace a presagire l'orrore. L'ascolto delle «Fate» non è agevole: l'attesa per il bel tema, per la melodia caratterizzata e caratterizzante è quasi sempre delusa. Ma che stupore ascoltare nel secondo atto il lungo monologo della fata Ada, che deriva dalla Leonora del Fidelio ed è ispirato dalla sua grandissima interprete, Wimelmine Schroeder-Devrient: qui la musica sbatacchia disperata tra paura, speranza, presagio della maledizione che pietrificherà la fata e amore incondizionato, facendo di questa pagina lunghissima e contorta un cartone preparatorio della melodia infinita. Se a ciò si aggiungono la cullante scena dei bambini e l'irruente coro finale del secondo atto, la suggestiva preghiera corale del terzo, le grida di battaglia, l'apparizione di Ada nella pazzia di Arindal, risolta con un omaggio a Mozart (l'aria di Paolina echeggia già nel primo atto), il canto di Arindal con la cetra che anticipa Tannhàuser, il finale entusiastico, anche se non entusiasmante e la durata di quattro ore, «Le fate» appaiono come l'esperimento disordinato di un ragazzo un po' folle. Il teatro di Cagliari ce le ha fatte conoscere in una esecuzione che, sotto la guida esperta di Gabor Oetvòs, ha permesso di cogliere al volo i caratteri fondamentali della partitura: Sue Patchell (Ada) e Raimo Sirkia (Arindal) sono stati pieni di slancio e, accanto a loro, Sebastian Holecek (Morald) Dagmar Shellenberger (Lora), Birgit Beer (Drolla), Frieder Lang (Gunther) e l'indisposto Artur Korn (Gernot) hanno creato una compagnia quasi sempre vitale. Paolo Gallarati
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