Tra scandali e utopie la rinascita del Belice di Rocco Moliterni

Tra scandali e utopie la rinascita del Belice LA MEMORIA. Mostre e convegni a 30 anni dal terremoto: da Gibellina un bilancio della ricostruzione Tra scandali e utopie la rinascita del Belice GIBELLINA DAL NOSTRO INVIATO «'A cera si squagghia e 'a processione nun cammina», ossia il tempo passa e non succede nulla, recita un antico proverbio trapanese, ed è l'orse la metafora più calzante dell'immobilismo, dei ritardi, delle pastoie burocratiche che hanno segnato la ricostruzione del Belice. La notte del 14 gennaio 1968 il terremoto con la sua furia devastante distrusse in questa valle interi paesi, si portò via centinaia di persone, segnò per sempre questo fazzoletto di campi, vigneti e colline ai confini delle province di Trapani e Agrigento. A vederli oggi sotto le nuvole grigie e il volteggiare dei corvi danno ancora un colpo al cuore, tra erbacce e pecore, i ruderi e le macerie di Salaparuta e di Poggioreale, Comuni cancellati dal sisma e ricostruiti altrove. A trent'anni da quella notte la mostra «La strada maestra», allestita nel museo civico di Gibellina Nuova, cerca di restituire la memoria di una commuta traumatizzata dal sisma prima e dalla ricostruzione poi. «Noi - dice il sindaco Giovanni Navarra - siamo stati tre volte terremotati: prima dalle scosse, poi dalla dinamite e dalle ruspe che hanno raso al suolo il paese, poi dalla vita per dodici anni in baraccopoli distanti chilometri l'una dall'altra». La mostra («non è stato facile avere dalla gente le fotografie che aveva salvato dalle macerie», dice Navarra) ripropone le case, le strade, le piazze, i volti della Gibellina «vecchia», uno straordinario spaccato del Sud d'Itaba nei primi Anni 60: ci sono i ragazzi al bar e i cortei nuziali, le feste «du Signuri» e le campagne elettorali, le ragazze della scuola di taglio e via Umberto, «a strada ranni» (la strada grande), affollata di gente. Dell'acciottolato di via Umberto resta qualcosa, ai bordi del lenzuolo di cemento bianco (Cretto) che Alberto Burri ha steso, negli Anni 80, sui resti di Gibellina Vecchia. Un gesto simbolico come simboliche sono le decine di opere d'arte contemporanea che costellano a undici clùlometri di distanza la nuova Gibellina. La fontana di Cascella, il Contrappunto di Melotti, i Ritmi sismici di Legnaghi, la Stella di Consagra, la piazza di Pomodoro fanno della cittadina del Belice un surreale museo all'aria aperta. Testimoniano d'una utopia pervicacemente perseguita da Ludovico Corrao, senatore ed ex sindaco di Gibellina che ha guidato l'esodo della sua gente dal paese arroccato sulle colline alle casette a sclùera, di un improbabile stile inglese, nel nuovo centro in pianura, mettendo in corto circuito la cultura delle avanguardie artistiche e quella dei contadini. «Io rifiuto - sostiene ancora oggi Corrao - l'idea che la cultura contadina sia una sottocultura da emarginare. Un giovane di Gibellina deve avere le stesse possibilità di un giovane di qualsiasi città del mondo. Poi molti degli artisti che abbiamo chiamato sono siciliani, Consagra è nato qui. Se neghiamo all'arte la partecipazione ai processi sociali finiamo solo col farne un orpello». Ma molti dei monumenti «firmati» cadono a pezzi arrugginiti o sgretolati dalle intemperie, il tetto della Chiesa Grande disegnata da Quaroni (con mi globo bianco che sembra un serbatoio di gas) è caduto, quattro anni fa, senza veder celebrata la prima messa. «Lo scandalo non è che sia crollato il tetto della Chiesa di Quaroni, ma che ne- gli ultimi anni non sia stata finita. Io avevo denunciato il pericolo dei crolli prima che avvenissero». Per Corrao «il bilancio di questi trent'anni è con forti ombre perché non si è riusciti a completare la ricostruzione. Prima la mancanza di normativa, di leggi ha decapitato la possibilità degli enti locali. Per anni volutamente si è tenuta fuori la popolazione dai progetti di ricostruzione, affidando tutto ai tempi della burocrazia. E quando finalmente è cambiata la normativa i finanziamenti sono arrivati con il contagocce». Oggi comunque l'aria che si respira nel Belice, girando tra i paesi fatti di case nuove, come Santa Ninfa o Poggioreale (lo scandalo e la vergogna delle ultime baracche toccano solo Santa Margherita) è quella di una diversa consapevolezza. La mostrano i giovani sindaci della zona, che proprio per fare un bilancio della situazione a trent'anni dal sisma si sono ritrovati a Gibellina. «Negli errori del passato - dice Enzo Ingraldi, sindaco di Vita - non c'è solo l'impreparazione ad affrontare i problemi, ma anche l'atteggiamento di chi pensava a un intervento dello Stato simile a quello che portò le cattedrali nel deserto come Gela. Oggi capiamo che non può essere Roma o Bruxelles a darci lo sviluppo». Gli fa eco Giuseppe Perricone, sindaco di Santa Margherita: «Non possiamo dire che le responsabilità dei ritardi siano solo dei governi regionali o nazionali, da parte nostra non si è fatto il massimo». Finita o quasi la ricostruzione si tratta di pensare a uno sviluppo possibile, se no le case appena costruite rischiano di tornare a essere vuote, per una nuova emigrazione. «Trent'anni fa - dice Enzo Lotà, sindaco di Menfi i paesi del Nord-Est erano marginali, oggi sono ai primi posti in Europa. Prendiamo esempio da loro, cerchiamo di avere idee e proposte spendibili sul mercato». Ma su cosa puntare? «Dobbiamo - sostiene il sociologo Lorenzo Barbera, collaboratore di Danilo Dolci e presidente del Cresme (Centro ricerche economiche e sociali per il Meridione) - valorizzare le cose che abbiamo: l'agricoltura e il turismo. Ad esempio qui si producono ogni anno 5 milioni di ettolitri di vino. Ma questo vino non porta il nome del Belice nel mondo, finisce nelle bottiglie di Chianti o di Bordeaux». Anche per questo Barbera insieme con una decina di sindaci ha dato vita all'Isb, l'Istituto per lo sviluppo del Belice. Gli ostacoli a un possibile sviluppo non sono solo economici, c'è anche una mentalità «atavica» da superare: «I nostri giovani laureati - conclude Barbera - devono smetterla di pensare come unico sbocco di lavoro al posto pubblico, devono imparare a essere in qualche modo imprenditori di sé stessi, a credere nel loro territorio, nelle possibilità che può dare». Insomma di cera in questi armi se n'è squagliata molta, ma forse ora nel Belice c'è chi vuol far riprendere a camminare la processione. Rocco Moliterni In alto via Umberto I a Gibellina come appariva in una foto del 1965. Qui accanto la «Stella» di Consagra all'ingresso del Belice L'ex sindaco Corrao: «Abbiamo usato l'arte d'avanguardia contro l'emarginazione. Quella dei contadini non è sottocultura»