Somalia, la vittima è un carnefice

Somalia, la vittima è un carnefice Era venuto a Roma rivendicando indennizzi per torture subite dagli italiani, la Digos gli ha teso una trappola Somalia, la vittima è un carnefice Hassan fermato per l'assassinio di Ilaria Alpi ROMA. La trappola italiana, se così si può dire, è scattata nella notte. Erano le due passate quando, negli uffici della questura di Roma, il somalo Hashi Omar Hassan, 24 anni, detto «Fawdo» ossia «bullo», ha capito che gli italiani lo avevano fregato. Era arrivato a Roma inseguendo il miraggio di un ricchissimo indennizzo, al mattino la Commissione Gallo lo aveva ascoltato con tutti gli onori, e a quei commissari aveva raccontato di come i militari italiani lo avevano pestato e poi persino buttato a mare legato mani e piedi. Pensava di essere vicino alla ricchezza. E invece scopriva in piena notte che c'era di mezzo un poliziotto furbo, il quale stava dimostrando di sapere un sacco di cose sul suo conto: che lui, Hashi, era alla guida di quella Range Rover blu da cui scesero gli assassìni di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin. Che proprio lui, il 20 marzo 1994, tagliò la strada alla jeep dei due inviati della Rai. Ma la sorpresa più grande per Hashi è che ben tre cittadini somali lo accusano. Hashi Omar Hassan è adesso in stato di fermo. L'accusa è concorso in duplice omicidio. Lui non parla. Protestano invece quelli della Società degli intellettuali somali che gli avevano garantito l'indennizzo e sono caduti in trappola pure loro. «Non collaboriamo più finché non sapremo se siamo parti offese o indagati», dice per tutti l'avvocato Douglas Duale, il quale in serata accuserà le autorità italiane, e in particolare l'ambasciatore Giuseppe Cassini, di aver offerto soldi in cambio di false testimonianze. Accuse fermamente respinte dalla Farnesina. Raccontano anche che Hashi ha reagito da duro alla sorpresa. Ma che non ha saputo frenare il disappunto quando ha scoperto che dietro la porta della Digos romana, dove lo interrogava il dirigente Domenico Vulpiani, c'era l'autista di Haria Alpi, Ah Mohamed Abdi, il quale s'era fatto tornare la memoria. Alla fine, nel corso di un drammatico confronto all'alba, Abdi ha riconosciuto il giovanotto per l'autista del gruppo di fuoco che li attaccò. E sono scattate le manette. E' davvero lui l'assassino di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin? I genitori di Ilaria ne sono convinti. «Un fatto positivo. Rafforza la nostra speranza di arrivare alla verità». Restano convinti, però, che l'omicidio della figlia sia legato a storie torbide. Dai traffici di armi ai segreti inconfessabili delle torture. «Rimane in noi la convinzione delle responsabilità di alte sfere dell'esercito». Gli investigatori di polizia preferiscono soffermarsi sulla dinamica dell'omicidio per come l'hanno ricostruita: quel 20 marzo 1994 si era alla vigilia del ritiro del contingente italiano da Mogadiscio. In città c'era un clima di grande disordine e di ostilità anti-italiana. Ilaria si muoveva con una sola macchina, un autista e un uomo di scorta. Arrivata all'hotel «Hamana», nella zona Nord della città, pensava di trovare gli altri giornalisti italiani. Invece quelli erano andati via. Montarono in macchina in tutta fretta. Ma anche sette miliziani del clan Abgal (un gruppo amico di Ah Mahdi, nemico di Aidid), che fino a quel momento bevevano tranquillamente té, salirono precipitosamente in auto. Qualche minuto dopo, la jeep della Rai veniva bloccata sulla strada e due miliziani scendevano armati di fucile sparando all'impazzata. Abdi e l'uomo di scorta si dileguarono. Restarono intrappolati i due italiani. Secondo il racconto dei testimoni, che sono poi quelli che incastrano il giovane Hashi - oltre all'autista Abdi ci sarebbe anche un certo Jelle, autista di im altro giornalista italiano - lo scontro fu veloce e brutale, ma senza colpi a bruciapelo. Se ne saprà di più da mia perizia in corso. Quanto ai mandanti, nessuno si sbilancia. Neanche il pm Franco Ionta, che deve ricostruire il «quadro logico» in cui si situa il delitto. A parlare di mandanti ci pensa invece un certo Omar Hashi Dirà, 51 anni, medico, che vive e lavora da vent'anni a Perugia. Si presenta in mattinata davanti alla commissione Gallo, che lo ha invitato, spiega il presidente, «su suggerimento di un giornalista», e racconta come il delitto sia stato commissionato da un somalo influente per nascondere un traffico di armi. Come si ricorderà, c'è un influènte somalo, il sultano di Bosaso, che fu l'ultima persona intervistata da Ilaria, a parlare di traffici di armi. Ma è lo stesso che è stato iscritto al registro degli indagati, in una certa fase delle indagini, perché sospettato di essere lui il vero trafficante di armi. «Sono cose che ho saputo nel 1994 quando tornai a Mogadiscio. Della cosa mi parlarono alcuni collaboratori di Ali Mahdi», dice l'uomo. Il quale si presenta come nipote di Aidid. Cioè il clan dei nemici di Ah Mahdi. Però così si precipita nel solito clima delle fazioni somale. C'è da sospettare un ennesimo gioco tra clan, che cercano di utilizzare la giustizia italiana per i loro regolamenti di conti? Boh. La figlia di Aidid, la signora Fatuma Mohammad Farah, che vive in Italia, complica ulteriormente le cose: «Quel signore - dice a La Stampa - è un impostore. Non è nostro parente». Francesco Grignetti Era alla guida della jeep da cui scesero i killer: lo ha riconosciuto l'autista dell'inviata uccisa L'avvocato Douglas Duale, difensore dei somali accusa: «L'Italia ha pagato per ottenere false testimonianze». La Farnesina subito smentisce Qui accanto Ilaria Alpi Nella foto grande Hashi Omar Hassan, e in quella piccola l'avvocato Duale

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