Dreyfus, prove tecniche di Olocausto

Dreyfus, prove tecniche di Olocausto polemica. Parla George R. Whyte, autore di una sconvolgente trilogia ispirata all'«affaire» Dreyfus, prove tecniche di Olocausto «Perché ripeto tre volte "f accuse"» DROMA IECI anni. Dieci anni di ricerche d'archivio, di raccolta meticolosa di do 1 cumentazione per ricostruire passo dopo passo l'intero «affaire Dreyfus» e per poi realizzare, sulla base dell'imponente materiale scritto e iconografico accumulato, la trilogia The accusaci composta da una satira musicale, Rage and Outrage, dall'opera The Dreyfus Affair e dal balletto Dreyfus-J'accuse. Ci sono voluti ben dieci anni per consentire a George R. Whyte, l'autore della trilogia dreyfusarda che è oggi in Italia proprio quando si celebra il centesimo anniversario della pubblicazione del celebre J'accuse di Emile Zola. «Dieci anni che non bastano a ristabilire tutt'intera la verità e la giustizia», dice alla Stampa Whyte, come a tratteggiare il progetto immane di un'opera senza fine e destinata a restare, per sempre, incompiuta. Ebreo nato in Ungheria, Whyte ha dedicato l'intera sua esistenza a ricordare i trentadue membri della sua famiglia inghiottiti dall'Olocausto. Non a rendere omaggio, ma a ricordare perché, dice, «il lavoro degli ebrei è quello di conservare la memoria, di ricordare il passato perché non sia cieca la costruzione del futuro». Ma il destino tragico della sua famiglia e dell'ebraismo europeo Whyte lo vede racchiuso in tutte le sue potenzialità nella campagna accusatoria sull'ufficiale Dreyfus, che non fu solo una macchinazione politico-giudiziaria che tentò di stritolare un innocente, non fu solo l'occasione per dare i natali, con il J'accuse di Zola, all'intellettuale moderno che acquista un ruolo decisivo nella politica e nel giornalismo, ma rappresentò quella che con amaro sarcasmo Whyte definisce «le prove generali dello sterminio di sei milioni di ebrei, la prima deportazione di un ebreo nell'era moderna, civilizzata, sofisticata, figlia della Dichiarazione dei diritti dell'uomo. Come già aveva spiegato Hannah Arendt, fu nell'affare Dreyfus che venne collaudato quell'intreccio di antisemitismo, di uso raffinato delle tecniche di propaganda, di determinazione nel voler colpire l'ebreo che sarà tragicamente sperimentato nella soluzione finale». Whyte è un polemista vigoroso e combattivo, un intellettuale che ama l'ironia e l'autoironia corrosiva e coltiva l'arte del paradosso appresa nell'Inghilterra di cui è diventato cittadino. Quei dieci anni trascorsi tra gli archivi vaticani e la Biblioteca dell'Università ebraica di Gerusalemme e che gli hanno dato il materiale per ricordare, attraverso la rielaborazione artistico-musicale dell'affare Dreyfus, l'«evento unico dello sterminio degli ebrei» sono la testimonianza vivente di una volontà ferrea di non darla vinta a un atteggiamento sciatto nei confronti della storia e del passato che Whyte fa mostra in ogni sua parola e ragionamento di considerare il veleno sottile contro cui combattere: il veleno dell'oblio e della minimizzazione. E per questo Whyte non indietreggia di fronte a considerazioni non dettate dal conformismo: «L'opera è stata rappresentata per la prima volta a Berlino e non dimenticherò mai il senso di shock che traspariva dai volti degli spettatori che si sentivano colpiti dall'energia del J'accuse. Una reazione di serietà che mi consente di affermare tranquillamente questo: la comprensione della mia opera è stata molto più profonda in Germania che a New York, negli Stati Uniti d'America in cui tutto il mondo e la tragedia del mondo vengono ridotti a una grande Broadway e dove ogni genere di musica viene trasformato in un musical». Considerazioni amare e sarcastiche. Ma anche considerazioni che rappresentano un pugno simbolico ben assestato sui volti dei pacificatori a oltranza: «L'Olocausto è stato ideato, progettato e realizzato nella società cristiana». E se l'intervistatore si ribella a un'affermazione che ri- schia di suonare come un verdetto di colpa che condanna un'intera cultura, Whyte controbatte che certo, «la responsabilità è individuale», ma non si possono negare gli effetti devastanti che la giudeofobia di derivazione cristiana ha provocato nel cuore della civiltà occidentale: «Noto con immenso piacere che Ginvanni Paolo II invita i cattolici a recitare il mea culpa a proposito dello sterminio degli ebrei e non posso che esserne commosso. Ma vorrei che questo mea culpa fosse scolpito nel catechismo per dimostrare che il pentimento significa volontà che mai più siano create le condizioni dell'Olocausto». C'è un radicalismo nelle parole di Whyte che è lo stesso radicalismo che fa pronunciare all'autore della Trilogia dreyfusarda espressioni non entusiastiche per il ruolo di Zola, che se ebbe il merito di far diventare l'affare di un ufficiale ebreo perseguitato un caso mondiale, ricavò anche grandissimi vantaggi in termini di notorietà e prestigio. E fa dire a Whyte che gli unici a meritare l'ammirazione incondizionata sono quelli che «sanno fare sacrificio di sé per una causa». Whyte non si è «sacrificato», ma ha dedicato l'intera sua esperienza artistica e intellettuale al compito di «ricordare». Gliene sia reso merito. Pierluigi Battista Una rielaborazione artistico-musicale costata dieci anni di ricerche d'archivio, una denuncia che non risparmia neppure Zola L'AURORE JAeeiise,».! IÌTTHE MI FBÈSiit CE LA BÉPIIBLIQUE Par ÉMILE ZOLA marnai IBIS» A lato il telone che riproduce l'appello di Zola (uscito il 13 gennaio 1898 sull'«Aurore»), dispiegato l'altro giorno sulla facciata di Palais Bourbon, sede dell'Assemblea nazionale francese. Il centenario dello «J'accuse» sarà celebrato oggi a Parigi dal presidente Chirac e dal primo ministro jospin. Sopra George R. Whyte |FOTO SARAH NATHAN DAVISj

Luoghi citati: Berlino, Germania, Gerusalemme, Inghilterra, Italia, New York, Parigi, Stati Uniti D'america, Ungheria