«Giappone, ci hai traditi» di Paolo Guzzanti

«Giappone, ci hai traditi» «Giappone, ci hai traditi» Seul scopre l'onta dei licenziamenti LE TIGRI FERITE REPORTAGE! SEUL DAL NOSTRO INVIATO La gente pensa, e lo dice, che sta perdendo il posto di lavoro non per colpa delle «chaebols», delle grandi conglomerate coreane, ma a causa del Fondo monetario internazionale e delle sue regole feroci, dietro le quali si nascondono gli Stati uniti e i Paesi occidentali, spietati e invidiosi. La gente ti guarda male. Nessuno fra quelli che hanno più di quarant'anni parla inglese o una qualsiasi lingua occidentale. I giovani sì, qualcuno bene, qualcuno soltanto poche parole. Ma parlano molto il giapponese, perché la Corea è stata sempre una provincia giapponese contesa a Russia e Cina. E l'economia che sta colando a picco in questi mesi è di modello giapponese: capitalismo assistito dallo Stato, con aziende familiari potenti, corrotte e corruttrici, legate a banche subalterne e altrettanto familiari. I loro prodotti non sono selezionati dal mercato, ma frequentemente imposti: ogni grossa famiglia vuole la sua fabbrica di automobili e materiale elettronico e scaraventa sul mercato macchinari effimeri. Gli americani sono terrorizzati dall'idea che un ciclone di spazzatura elettronica o meccanica a prezzi nulli si scaraventi sul loro mercato come conseguenza dell'aggravamento della crisi. Il modello è giapponese, ma il Giappone ha una riserva di denaro e di risorse, con inflazione zero, che gli permette di fronteggiare per ora una crisi di insolvenza che ha già denudato dieci grandi aziende fra cui quattro banche, una compagnia di assicurazioni e una immobiliare. Ma la bilancia dei pagamenti del Giappone ha un surplus enorme, che la Corea non si sogna, in ginocchio davanti alla medicina del Fmi che è pronto a tamponare, sì, ma in cambio di sacrifici umani. Seul è talmente brutta da essere affascinante per questo. Ma è una vera città di frontiera: non soltanto perché è la capitale di un Paese diviso al 38° parallelo da una guerra sospesa e mai conclusa. Ma perché è un crocevia gelido fra tutte le civiltà del mondo: l'Occidente è rappresentato dai modelli di vita puramente superficiali (i parrucchieri esibiscono in vetrina teste femininili bionde ed europee) e, quanto all'Oriente, sembra di essere nella periferia della megalopoli fangosa e tristemente tecnologica di Biade Runner. i l i gIl facchino che mi apre la porta in albergo dice: «Sa che significa in realtà la sigla Imf, Internatic lai Monetary Fund? Significa l'in fired: so no licenziato». E finge di ridere. Philip Choi, che ha meno di qua rant'anni e dirige un'azienda, la «Stratton Ventures» che- organizza l'ingresso di investitori stranieri da Hong Kong e dagli Stati Uniti, dice: «La disgrazia di questo Paese è che ha creduto nel modello giapponese anziché in quello americano. E la prova è che pochi ancora parlano inglese e meno ancora sono quelli che pensano come si pensa in Occidente. Storicamente i coreani sono lenti a capire e accettare i mutamenti, ma quando afferrano la situazione sono fulminei nel reagire. Io penso che questa crisi sia benedetta e ■ alutare, visto che non abbiamo scelta. O cambiamo tutto alla svelta, o crepiamo. Se gli occidentali si fidano dei nostri consigli, qui possono fare affari d'oro, e noi con loro». E' un fatto: i giornali sono pieni zeppi di annunci economici con richieste di professori d'inglese. Altre colonne di annunci offrono case prestigiose a fitti ridotti per occidentali che vogliono aprire qui uffici e case d'abitazione. E' come se la Corea si decidesse, o si apprestasse a decidere, di spostare il suo grave peso ad Ovest, straziandosi l'anima e squarciandosi le vesti. Ma lentamente, con dolore e molta rabbia. Non si tratta soltanto di perdere sicurezza e soldi, affrontare una vita sconosciuta in cui il lavoro può persino non esserci, ma si tratta anche di perdere o abbandonare l'identità, il legame radicato con l'Asia profonda, con Tokyo e persino con Mosca, della cui antica e duratura influenza qui cogli subito l'umore. La prima cosa che la gente ti chiede è se sei russo. Con i russi i coreani hanno adesso un rapporto bizzarro: nel 1992 si fidarono a prestare a Mosca 3 mila miliardi di dollari. Ma i russi smisero subito di pagare gli interessi e il debito è stato trasferito sulle forniture militari. Così, nel momento in cui la Corea avrebbe bisogno di riavere i suoi soldi, i russi consegnano i loro migliori fondi di magazzino militare: tank dell'ultima generazione con missili teleguidati ed elicotteri in lega leggera. Ed è bizzarro perché questo Paese ha combattuto con le armi americane contro le armi russe di cui erano dotati cinesi e nordcoreani. Gli stessi nordcoreani con cui DJ, il presidente eletto, è disposto a dialogare. Ma la frontiera fra le Coree resta rovente. La guerra di Corea, l'unica guerra sanguinosa e calda della cosiddetta guerra fredda, è vecchia di 45 anni. Tanti quanti sono quelli della presenza militare americana. Quell'eroico pazzo scatenato che fu il generale MacArthur qui si giocò la carriera quando pretendeva di attaccare la Cina e usare la bomba atomica partendo proprio da Seul. Ma quella è una vecchia storia. La nuova storia dice che qui l'identità asiatica è stata ed è fermamente e gelosamente con- servata, perché la Corea ha seguitato a sognare di avere un unico modello e un unico rivale che non era l'America, ma il Giappone: ha sognato fino all'altro ieri di passare dall'undicesimo al settimo posto fra le nazioni produttrici di ricchezza e di entrare quindi nel G7 fra colpi di gong e grida festose, finalmente affrancata dal suo complesso di inferiorità postcoloniale con Tokyo. Pensava di farlo con idee da capitalismo-samurai: imprese guidate da padrinati arroganti legati dal filo della corruzione con il potere politico, avido e permissivo con i potenti, liberticida e volgare con i poveri. Questo è un Paese in cui ancora oggi si fiutano i resti del vecchio re¬ gime oppressivo, benché la democrazia abbia cominciato a funzionare dai primi Anni Ottanta. E' un Paese in cui le forze armate si permettono ancora di chiedere la censura sugli sceneggiati televisivi che mostrano i sanguinosi pestaggi degli Anni Ottanta, quando l'attuale Presidente eletto stava in galera e veniva bastonato e condannato a morte. E' un Paese in cui quando arrivi ti fanno Firmare un modulo in cui devi dichiarare se porti con te dei libri e quali. E' un Paese in cui stanno ancora in galera prigionieri politici e in cui si sono avute nel 1987 ben 25 esecuzioni capitali, con una lista d'attesa di 36 condannati a morte. Ma è anche un Paese abbastanza libero da consentire con elezioni regolari e non contestate la vittoria dello zoppicante Kim Dae Jung, detto DJ, nemico numero uno del passato regime e leader della sinistra liberale. Kim Dae Jung cammina come un pinguino a causa delle torture subite e delle conseguenze di un attentato. Leader della sinistra, tocca adesso a lui trattare da una parte con l'ipercapitalista-filosofo George Soros e dall'altra con le potentissime e peroraste confederazioni sindacali il licenziamento di centinaia di migliaia di lavoratori in un Paese in cui non esiste altra protezione sociale che la tradizione familiare. Qualcuno gli ha già gridato per strada: «Pentiti, DJ. Ci hai tradito prima ancora di entrare in carica». DJ diventerà Presidente esecutivo fra un mese e sta vivendo una vita da incubo. I suoi elettori sono disperati e in attesa del licenziamento. Le prime ad essere cacciate via sono le donne. Choi Myung-sook, portavoce del movimento femminile Women Link dice: «Dovevamo occuparci finora soltanto di molestie sessuali e discriminazioni nelle carriere. Adesso le donne vengono da noi perché sono cacciate in massa, per prime, subito e tutte. Si salvano pochissime professioniste di alto rango, ma tutte le laureate sono a spasso». Kang Jung-wha, 24 anni e licenziata a dicembre, dice: «Mai avrei pensato di poter essere licenziata soltanto perché sono una donna. Ma così è stato: un bel giorno hanno comunicato che tutte le ragazze laureate al college erano licenziate, punto e basta». In Corea nessuno era mai stato licenziato, perché il sistema era ed è ancora drogato da una serie di convenzioni che non garantiscono al la- voratore una rete di protezione sociale, ma che lo rassicurano (lo rassicuravano) sul punto fondamentale: si entra in azienda appena finite le scuole e si esce solo per limiti di età. Adesso scopre la disoccupazione più brutale, e partendo dalle donne. Le donne di Seul sono visibilmente diverse secondo l'origine, la condizione sociale e il livello di istruzione. Se le laureate sono accuratamente vestite e truccate come europee, migliaia di vecchie contadine affollano gli angoli delle strade e i marciapiedi dei ponti come babuske russe: fazzolettoni, facce larghe e sdentate, mani arrostite dal freddo e dalla fatica. E cucinano nei mercati allestendo piccole mense sotto i tendoni che sanno di fritto, pesce, mito, pioggia e fretta. Seul è mia sarabanda di pezze, guanti, radio, focacce, castagne arrostite, aliti. Gli uomini portano sulla schiena dei basti da somaro e camminano piegati sotto il peso di merci elettroniche, fascine di legna, scatolame. Se provi a fotografarli ti prendono a schiaffi. Tutti ti guardano come un nemico, un oggetto estraneo. I mercati sono stracolmi di ogni mercanzia e cianfrusaglia e nei grandi magazzini si incontrano graziosi caffè parigini che servono pasticcini e tè deliziosi frequentati da belle signore con fighe che sorridendo dicono: «Un p'tit pam s'il vous plait...», e a pochi metri un banco di pesce truculento sparge odori spietati. Si entra nelle farmacie per bere bottigliette di ginseng che costano 1000 wong. Per noi italiani il calcolo della moneta è una pacchia, perché un wong vale quanto una lira e un taxi guidato da un autista in uniforme da portiere d'albergo ti fa fare il giro della città per diecimila lire, o wong. Ricevere la mancia deve essere poco onorevole, perché me la sono vista rifiutare quasi sempre, oppure accettare con una tale quantità di gridolini e salamelecchi da farmi pensare che non fa parte del costume. Anche i giapponesi di Seul sono immusoniti: loro vivono qui da padroni, da sempre. Durante l'occupazione militare furono feroci e sprezzanti, come lo furono in Manciuria. Come padroni economici seguitano ad avere un atteggiamento colonialista, ma la loro egemonia sembra davvero agli sgoccioli. Paolo Guzzanti Carichi di debiti davanti al Fondo E Mosca ripaga i prestiti con tank e elicotteri in lega Svanito il sogno di entrare fra i 7 grandi Cacciate dalle aziende tutte le laureate Nella foto grande una immagine di Seul In basso paura sul mercato di Hong Kong wi

Persone citate: Choi, George Soros, Kim Dae Jung, Philip Choi