I testimoni introvabili di Maurizio Molinari

I testimoni introvabili INDAGINI E DIPLOMAZIA I testimoni introvabili «Non vorrete torturarci ancora?» PORTARE in ItaliaglLundici somali, vittime e testimoni delle presunte violenze, non è stato facile. Tutto inizia quando la Commissione Gallo termina la missione estiva a Nairobi e Addis Abeba per ascoltare i testi fino a quel momento disponibili. Ettore Gallo ed il capo della Procura militare, Ferdinando Imposimato, concordarono sulla necessità di completare l'inchiesta portando il maggior numero di somali «attendibili» in Italia. Bisognava setacciare un Paese in preda alla guerriglia e senza vie di comunicazione, rintracciare i soggetti senza poter contare sugli irreperibili documenti di identità, convincerli a venire in Italia. Il compito cadde su Giuseppe Cassini, inviato della Farnesina nel Corno d'Africa e da quasi due anni di stanza a Mogadiscio. Cassini si mise al lavoro forte di tre carte da giocare: i suoi buoni rapporti con le fazioni rivali di Ali Mahdi e Aidid, la presenza sul territorio delle organizzazioni non governative e, soprattutto, il sostegno dell'«antenna» del Si- smi. Da allora, sono serviti due mesi per rintracciare i testi ed altri due per portarli in Italia. Ricerca lunga quella per trovare Aden Abukar Ali, a cui sarebbero stati applicati gli elettrodi sui testicoli. Di lui nessuno sapeva nulla e la regione di Giohar, dove ha sede il suo clan, è vasta e brulla. Per cercarlo, come l'ago in un pagliaio, Cassini ed il suo «team» hanno seguito la «pista dei clan», ovvero rintracciando, con metodo piramidale, i sotto e sotto-sotto-clan di Giohar, fino ad arrivare ai nuclei familiari. Ma quando Aden Abukar Ali emerse dalla savana non ne voleva sapere di venire in Italia: «E se mi rimettete la corrente lì sotto?» chiese impaurito. Incontri, rassicurazioni ed i buoni uffici di Yaya Amir, presidente della «Società di intellettuali somali», hanno indotto Aden a salire sull'aereo. Dahira Salad Osman, la giovane presunta vittima dello stupro con il bengala, invece aveva mandato il suo capofamiglia a trattare. «Con Dahira partiamo tutti, è la legge del clan» disse, forte di una consuetudine che impedisce alle giovani di allontanarsi da sole. Ma lo Stato italiano non poteva portare sull'aereo un intero clan. Fu Cassini a doverlo spiegare, guadagnando il via libera della famiglia-tribù in cambio della concessione di un unico ac¬ compagnatore, il fratello di Dahira. A complicare il lavoro ci si è messa anche l'alluvione nel Sud, che ha colpito un milione di persone. Fra questi anche Gure, uno dei somali che dicono di essere stati picchiati dopo gli scontri al «Pastificio» del luglio 1993. Gure non ha trovato una canoa, così ha incaricato il fratello di «rappresentarlo». Il fratello è giunto a Mogadiscio, ha mostrato le sue ferite di guerra e, in forza degli atavici usi dei clan, ha detto: «Mio fratello è bloccato dalle acque, le mie ferite sono le sue e le sue sono le mie. Parto io per l'Italia». E servita tutta l'abilità - e la conoscenza del linguaggio dei clan - di Cassini per spiegare che ciò non era possibile. L'ultimo ostacolo sono stati i documenti: quasi nessuno li aveva ma senza non si poteva né partire né testimoniare. Così a Mogadiscio, per l'occasione, anonimi funzionari di uno Stato che non c'è hanno, per la prima volta dal 1991, emesso dei passaporti. Miracoli della legge. Maurizio Molinari Lunghe trattative per rassicurare gli undici ospiti Tullia Zevi e la foto della tortura con gli elettrodi