Dal «governo delle toghe» un diktat sulle riforme di Augusto Minzolini
Dal «governo delle toghe» un diktat sulle riforme Dal «governo delle toghe» un diktat sulle riforme E purtroppo, spesso i politici di ogni colore - quelli che dovrebbero fare un passo avanti - li assecondano. Il pretore pugliese che ha imposto il metodo Di Bella, lo stesso che davanti ad una selva di telecamere e microfoni si compiace avvertendo che non vuole essere un eroe, è stato acclamato nei giorni scorsi dal Polo. Il costituente Borrelli, invece, può contare in Parlamento su un partito di fedelissimi - i vari Pecoraro Scanio, Elio Veltri e perché no, lo stesso Antonio Di Pietro - che sono pronti a trasformare pedissequamente i suoi pensieri in proposte di leggi o in emendamenti per la Bicamerale. Quale legittimazione hanno i magistrati per intervenire e per governare a modo loro? La «piazza», o meglio le tante «piazze» d'Italia. Il pretore pugliese interpreta la rabbia dei malati di tumore e dei loro parenti, che in preda alla disperazione non credono più alla scienza ma si aggrappano a qualunque promessa. Borrelli ha dietro il cosiddetto popolo dei «fax», cioè i club delle tifoserie dei pm e della galera. Se si va a vedere, in entrambi i casi si tratta di una minoranza che, amplificata dal circuito mediologico, arriva a garantire i crismi della rappresentanza a quel pretore o a quel magistrato, gli consente di fatto - di governare in toga. Siamo agli antipodi di quello che dovrebbe essere il concetto di magistratura e di politica. Questo strano centauro mezzo pm, pretore o altro, e mezzo politico, è la fotografia più chiara dei mali di questo Paese: è il modo peggiore per amministrare la giustizia e, nel contempo, il modo peggiore per governare. Uno stereotipo che fa male agli stessi magistrati: scende l'indice di popolarità della categoria, ma scende anche quello di Antonio Di Pietro, capostipite dei centauri. Ormai il giudice silente, quello che parla solo per atti, non ha più cittadinanza in questo Paese. Eppoi, diciamoci la verità, spesso gli atti di questo o quel magistrato, di questa o quella procura, ri¬ spondono più a logiche di immagine, di condizionamento dei media, seguono a modo loro uno schema politico, che non ha nulla a che vedere con le necessità di questa o quell'indagine, di questo o quel processo. Ad esempio, fino a venerdì sera Renato Squillante - il capo dei gip romani accusato di corruzione, arrestato già due volte e rinviato a giudizio insieme a Cesare Previti - per la Procura di Milano non aveva la possibilità di inquinare le prove raccolte contro di lui. Da sabato mattina, invece, sì: alla vigilia della riunione della giunta di Montecitorio, che deve decidere sulla richiesta di arresto dell'ex-ministro di Berlusconi, il pool si è accorto che esiste questo pericolo. E d'altra parte Borrelli e i suoi non potevano volere in galera Previti (il quale comunque dovrebbe essere l'ultimo, per difendersi, a buttarla in politica), lasciando fuori Squillante. Così per premere sul Parlamento, per rendere an¬ cora più tesa l'atmosfera hanno cominciato con l'arrestare il primo. Adesso Montecitorio decida se il deputato Previti debba avere miglior sorte del cittadino Squillante. Una provocazione? Neanche a parlarne dicono a Milano -, basta leggere le carte. Sicuro. Ma sin d'ora si può azzardare una previsione: visto che non si può tenere la gente in galera per mesi e mesi fino al processo, c'è da scommettere che Squillante e lo stesso Previti (qualora la Camera desse il suo sì all'arresto) dopo qualche settimana tornerebbero in libertà. Intanto, però, il Parlamento sarebbe stato destabilizzato giusto alla vigilia dell'esame delle riforme istituzionali. Quelle stesse riforme che dovrebbero assicurare un riequilibrio dei poteri e portare il Paese fuori dal governo delle «piazze». Quelle, insomma, che non piacciono al centauro Borrelli. Augusto Minzolini Dalla Cassazione alle preture pugliesi stanno prendendo corpo nuove figure di giudici-centauri metà uomini di legge e metà politici
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