Suharto, affari e corruzione di Domenico Quirico

Suharto, affari e corruzione I sei figli e l'impero economico del Presidente indonesiano Suharto, affari e corruzione BAMBANG si occupa di petrolchimica, telecomunicazioni e banche, la sua fortuna è stimata in tre miliardi di dollari. Hutomo detto «Tommy» cura invece aviazione e automobili e in cassaforte conserva almeno seicento milioni di dollari. Sigit ha «solo» 450 milioni che arrivano dall'industria della plastica. Ci sono poi le tre sorelle che non stanno certo a guardare. «Tutut», la preferita del presidente, è arrivata a due miliardi di dollari con il suo gruppo «Citra Lamtoro»; deve ringraziare il monopolio dei pedaggi autostradali che le è stato graziosamente attribuito. Titiek cura la distribuzione petrolifera ed è ferma a duecento milioni di dollari. Resta la mascotte di casa, «Mamiek», 32 anni; ha scoperto l'informatica, cento milioni di dollari (per ora). E' il fatturato dei sei figli di Suharto, i tentacoli dell'impresa di famiglia messa in piedi dal moderno sultano di diciassettemila isole e di duecento milioni di sudditi, padrone lucido e paziente del più grande Stato musulmano del mondo, burattinaio duttile e astuto di una babele di venticinquemila lingue e dialetti e di un sistema di potere dove corruzione e sviluppo erano finora avvitati in modo inestricabile. Questa gigantesca società per azioni era completata dalla first Lady, Tin, che, molto sottovoce, in tutto l'immenso arcipelago era soprannominata «tin per cento». Ma la efficiente matrona è mancata due anni fa; il suo posto è stato preso dai suoi volenterosi lupacchiotti. Aristotele diceva che in politica bisogna accontentarsi di «una apparenza di virtù». Suharto è la dimostrazione che si può fare a meno anche di quella. In un libro di memorie uscito dieci anni fa, con la indifferenza dell'autocrate, fa cenno alle «voci» che parlano della sua onnivora dinastia; solo per liquidarle con la geometrica evidenza di una formula economica: «La concentrazione dei beni favorisce lo sviluppo». Nei grattacieli di Giakarta, che l'immenso obelisco di piaz¬ za Merdeka cova come una chioccia amorevole, ripetono una vecchia battuta: «Volete conoscere l'Indonesia in due cifre? Sette per cento di crescita economica e trenta per cento di corruzione». E' una sintesi efficace. Eppure la parola corruzione è un tabù che nessuno, neppure gli oppositori più irriducibili di Suharto, osa infrangere. «Quando sono arrivato al potere la gente crepava di fame - spiega Suharto -. Giakarta era come Bombay. Ora anche i contadini più poveri mangiano tre volte al giorno». Non è la solita vanteria di un dittatore. I grattacieli non sono una vetrina vuota; girando per l'immenso arcipelago, da Sumatra alle Celebes, dalle Molucche al Borneo, si incontrano quasi ovunque ospedali moderni, scuole confortevoli affollate di scolari, industrie che girano a mille e danno lavoro a 35 milioni di persone, una agricoltura che ha triplicato la produzione e ha raggiunto la autosufficienza alimentare. Questo miracolo è durato trent'anni, e la sua solidità ha un nome solo: la paura. Perché la storia dell'Indonesia è marchiata da un grande choc: l'epoca del padre della patria e profeta dell'indipendenza, Sukarno, uno di quei rivoluzionari indispensabili fino alla vittoria ma che diventano il giorno dopo un pericolo mortale. Sukarno, idolatrato dai terzomondisti, demagogo geniale e politico pasticcione, n'tocrate sn;e*ato ma amico di Mao e dei comunisti, stava portando il Paese alla disintegrazione. Venne rovesciato nel '65 da un golpe ancor oggi pieno di misteri. La controrivoluzione si trasformò in un massacro di comunisti e di oppositori il cui bilancio non è mai stato chiarito, da 500 mila a un milione e mezzo di morti. Da questo caos uscì un giovane generale, Suharto, che capì una verità semplice: gli indonesiani erano disposti a idolatrare chiunque promettesse loro un po' di stabilità. Per convincerli ha inventato un catechismo che si chiama «pancasila», una filosofia politica fatta di quattro formulette: dio, umanismo, unità, partecipazione e giustizia sociale. Il potere si appoggia prosaicamente sul partito unico, l'esercito e uno sviluppo economico continuo, ossessivo, inarrestabile, moltiplicato da una propaganda forsennata e diluito in un tiepido benessere. «Sempre di più» è scritto sui muri, incastonato nei manifesti, urlato negli spot. Per tutto questo gli indonesiani erano disposti ad accettare anche nepotismo e corruzione. Fino a ieri. Perché tutto è legato al mito del successo economico che risolve tutto. Crollata questa sovrastruttura, qualsiasi soffio può sollevare la tempesta. L'Indonesia è come il terribile vulcano Merapi: l'unica domanda è sapere quando esploderà. Domenico Quirico Il presidente indonesiano Suharto da trent'anni padrone del Paese

Persone citate: Mao, Suharto, Sukarno

Luoghi citati: Giakarta, Indonesia