«Mio papà, maialo di cancro nel labirinto di due fedi» di Massimo Giannini

«Mio papà, maialo di cancro nel labirinto di due fedi» UN DRAMMA FAMILIARE «Mio papà, maialo di cancro nel labirinto di due fedi» MROMA IO padre è morto di cancro, due mesi e mezzo fa. Aveva 66 anni, spezzati da un linfoma non-Hodgìàn «a grandi cellule». Avevamo sentito parlare di questa forma tumorale del sistema linfatico qualche anno prima, quando aggredì e uccise in tre mesi Jacqueline Kennedy. La battaglia persa da mio padre, invece, è durata un anno esatto. E' finita in un pomeriggio di pioggia, il 21 ottobre scorso, dopo un'ultima crisi respiratoria. Il suo sguardo sereno ma ormai disarmato, e poi lo stupore attonito con il quale mi interrogava con gli occhi, prima di chiuderli per sempre, li sento graffiare sul cuore ogni giorno. Ma adssso, se scrivo di questo dolore privato, è per il «caso Di Bella». Lo faccio non per tranciare giudizi, o emettere sentenze definitive. Al contrario, questa è la storia di un dubbio, atroce, e irrisolto per il cozzare insensato di due Fedi, due monadi che non comunicano né vogliono farlo. Non c'è, io credo, un problema di truce interesse economico: semmai di orgoglio delle persone, di ottusità delle «strutture». La Sanità «bipolare» Il «caso Di Bella» infiamma nomenklature sanitarie e di partito, divide scienziati e giornalisti. E' il «bipolarismo della medicina», come lo ha definito in un bellissimo articolo Francesco Merlo, sul CorSera: lo scontro politico tra la Somatostatina che piace alla Destra, e la chemioterapia che piace alla Sinistra. C'è insomma questo ennesimo «teatrino», questo conflitto galileiano. Da una parte l'Istituzione, con i suoi soliti apparati, le sue procedure, i suoi orticelli corporativi, la sua inviolabile «credibilità». Dall'altra parte il Salvatore, con il suo solito ciarpame da cattiva letteratura: la mitologia dello scienziato scomodo e boicottato, la mistica del santo che cura gratis gli ammalati. E c'è questo voyeuristico rituale da «giorno in Pretura». Assisto a tutto senza meraviglia, con un misto di rabbia e di nausea. E penso a mio padre, e a tutti quelli che ho conosciuto in questo anno di inutile via crucis tra ospedali, studi privati, gabinetti d'analisi. Potrei citarli per nome; il buon Sergio, leucemico acuto nella camera asettica, il «paesano» Daniele, Carlo detto «pirata bianco», e poi Bovo il «visconte», lo srilankese Sudath, il croato Mladen, ragazzo puro come diamante scappato dalla guerra balcanica e precipitato in un'altra, ancora peggiore. Poi tanti altri: alcuni se ne sono andati, alcuni lottano ancora. E se ne fregano delle beghe tra i Garattini e i Camponeschi, della risse tra la Bindi e la Fumagalli, dei fondi di Serra, di Feltri e di questo mio stesso articolo. Non perché siano cinici o incolti: ma perché quando stai su quei letti e tutto fa male, quando ti tormentano il corpo con gli aghi e le cannule, ti bombardano di rag- gi, di gocce e di compresse, tu vedi sfiorire te stesso e il tuo domani, non hai voglia né forza per allungare lo sguardo sul cicaleccio dei quotidiani. Fissi il vuoto, lo riempi di ricordi, o di niente, o di Dio, non lo so. Ma è così, per questi malati. Vogliono solo una certezza: curarsi con le medicine giuste. Poi, sia quel che sia. Oggi questa certezza non c'è. ■ Malati dimenticati Allora mi chiedo dove sono loro, e che posto hanno in questo «teatrino» italiano. Qualcuno si racconta in una scalcinata aula di tribunale, a Maglie, e già questo mi pare assurdo, crudele: che della vita e la morte decidano un pretore, o un assessore. Per «via giudiziaria», o per «giurisdizione regionale»: in Puglia sì, nel Lazio no, in Calabria sì, in Emilia no. Comunque vengono allo scoperto solo i pochi, presunti «salvati» che hanno seguito Di Bella e vedono trasfigurato nell'Angelo della Vita quel piccolo, mitissimo omino coi capelli bian¬ chi. In quel manipolo di malati parla la Fede, esige adesione cieca, senza verifiche né condizioni. Contesta la Scienza, travestita a sua volta da Fede perché esclude a priori ogni «altro da sé». Ma i «sommersi», cioè quasi tutti i poveri malati di cancro, stanno «in mezzo». Hanno cominciato a curarsi nell'unico modo conosciuto e testato, la chemioterapia. Dolorosa, devastante, con un suo grado di comprovata efficacia. E adesso, davanti al «teatrino» su Di Bella sono due volte sofferenti, due volte smarriti, e di fronte al bivio terapeutico: una cura che fa male, che forse non servirà lo stesso ma che è l'unico, esile filo al quale hai appeso la speranza, e un'altra cura che non fa male, magari non fa neanche bene ma sta lì, disponibile benché costosissima. Anche mio padre stava «in mezzo». Con questo cancro esploso a ottobre del '96, che pareva una tubercolosi secondo i primi accertamenti fatti al Policlinico Gemelli, e che invece in una settimana gli aveva invaso di linfomi i polmoni fin quasi a soffocarlo, già allora. Una chemioterapia d'urgenza, il Magraih, protocollo di cura tra i più potenti al mondo, l'aveva salvato, e in 5 mesi quasi guarito. Ma non ci eravamo mai fatti premature illusioni, i medici non ce l'avevano concesso: (Accontentiamoci di questo ottimo decorso - dicevano - è una forma troppo aggressiva per cantare vittoria adesso». Avevano ragione loro. La tentazione Di Bella Mio padre lo sapeva, io meglio di lui. E perciò già allora avevamo parlato tante volte, di questa «terapia Di Bella». Quanti ricoveri, in mezzo a quell'umanità sofferente e solidale, ad ascoltare esperienze di chi ci aveva provato. E quanti consulti, con gli ematologi del Gemelli, con gli specialisti dell'Istituto tumori di Milano o del Regina Elena, poi con quelli all'avanguardia del centro oncologico A. M. Anderson di Houston, ai quali avevamo trasmesso cartelle cliniche, lastre, Tac, risonanze, proto- colli. Da tutti lo stesso «verdetto», metà rassicurante e metà manicheo: «La chemioterapia che sta facendo è giusta: bisogna continuare. Di Bella? Non mettetevi nelle mani dei mascalzoni: quella è stregoneria, la medicina è un'altra cosa». Ricordo un colloquio a giugno - quando il linfoma di mio padre era già tornato all'attacco con il suo ematologo, amico e uomo impagabile, non «barone» ma medico di «prima linea», di quelli che si sfiancano in corsia e non discettano dietro a una cattedra: «Se decidete di andare da Di Bella - mi disse - mi date un dolore personale, oltre che professionale. Fate male a voi stessi. Le racconto un fatto di questi giorni: un ragazzo di 31 anni, linfoma in chemioterapia a gennaio, rispondeva bene e aveva ottime possibilità di remissione dalla malattia. A febbraio ha mollato, è andato a curarsi da Di Bella: 7 giorni fa la famiglia ce lo ha riportato, in coma. E' morto 3 giorni fa». Angoscia sull'angoscia, dolore che riproduce se stesso ogni gior- no, ogni ora. Così con mio padre, che ormai viveva degli umori e dei sospiri di quell'ematologo al quale aveva affidato la sua vita, facemmo una specie di patto: «Quando ci dirà che per lui non c'è più nulla da fare, andremo da Di Bella». Non c'è stato il tempo. Un estremo tentativo Ma nei pochi mesi che da allora mio padre ha vissuto, quel tarlo ci ha divorato l'anima, come la malattia che intanto progrediva, senza pietà. Ricordo la «rassegna stampa» che mio padre mi chiese, su questo ricercatore solitario che da Modena diffondeva il suo Verbo. Ricordo, a casa, la tensione sospesa, fitta, da tagliare col coltello, durante le prime trasmissioni tv su Di Bella. Ricordo il mio estremo, quasi autolesionistico tentativo di squarciare il velo delle verità ufficiali: andai alla convention di luglio, Di Bella e i suoi seguaci all'Hotel Excelsior. Ascoltai, presi appunti per tre giorni, partecipai alla conferenza finale con il Professore. Non mi parve affatto un ciarlatano, anzi mi diede l'impressione di uno studioso serio, documentato. Mi piacque quando disse che «i medici che fanno terapia anti-cancro non curano i malati, ma solo la malattia». E' vero, quasi sempre nei nostri ospedali, burocratizzati come ministeri, il malato di tumore non è una «persona» con la sua storia, il suo distillato di emozioni psichiche e di lesioni biologiche dalle quali nasce o sulle quali si innesta la patologia. Ma è una «cartella clinica viaggiante», che passa dalla mano sinistra di un radiologo alla mano destra di un oncologo, spesso senza che l'una sappia cosa fa l'altra. Mi piacque quando disse che «gli esiti della chemio, in termini di guarigione, sono enfatizzati dalla medicina ufficiale». E' vero, sono convinto anch'io che si tenda a sovradimensionare il buon effetto delle terapie dominanti, e ne intuisco le ragioni: bisogna dare speranza a chi soffre, e poi più cresce l'aspettativa terapeutica, più aumentano i finanziamenti per la ricerca, come dimostra la campagna sull'Aids. Non mi scandalizzo, non è speculazione ma l'unico sistema per fare ancora un po' di ricerca in questo Paese. Non mi piacque affatto invece, Di Bella, quando in tre giorni di dotte prolusioni e nella conferenza finale non fu in grado di darmi uno straccio di statistica sull'efficacia della Somatostatina, applicata a un «campione» anche minimo di pazienti. «La studio da 30 anni, funziona, ve lo assicuro», ripetè con quel tono persuasivo e dimesso. Puntando tutto, di nuovo, sull'atto di Fede. Nessuna statistica Quanti ne ha curati, quanti ne ha salvati? «Decine di migliaia hanno seguito le mie cure - fu la replica ma non so quanti sono guariti. Io prescrivo i farmaci, ma solo di chi mi ha scritto o è tornato nei mesi successivi so l'esito della cura». Deprimente: generiche casistiche, ma non una cartella clinica perché - disse il professore - «io non sono un ospedale, non ho strutture per seguire i malati». Disarmante: non bastano una segretaria e un Pc, a censire poche migliaia di pazienti e seguirne il decorso? Jnfine irritante: perché non chiede di far sottoporre gli esiti della sua terapia al vaglio scientifico delle autorità sanitarie, senza il quale la gente continuerà a doversi «fidare», spendendo 15 milioni al mese per la Somatostatina? «Sono loro, al ministero, che devono provarne l'efficacia», fu la non-risposta. Come se l'enorme posta in gioco, la vita dei «sommersi» cui il professore ha dedicato la sua, possa dipendere da una bizantina questione di «competenza»: chi, per primo, deve fare che cosa. Ecco le due Fedi astratte, che si scontrano. «In mezzo», appunto, centinaia di migliaia di malati. Io li ho visti di notte, con mio padre, vagare con le braccia martoriate dalle flebo, appesi come fantasmi a quei trespoli con le ruote che di spensano gocce di vita. Tossiche, ma le uniche di cui finora la Scienza sappia qualcosa. Il mio papà, da quell'anticamera è uscito, lasciandomi questi graffi sul cuore e il suo calore di padre, fra tello ed amico, che mi accompa gnerà per sempre. Ma tanti altri, in quell'anticamera ci stanno an cora. Massimo Giannini I pazienti vogliono una cosa sola: essere sicuri di prendere la medicina giusta «Ma non seppe darmi uno straccio di statistica sull'efficacia della somatostatina»

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