La vendetta della cultura contadina di Ferdinando Camon
La vendetta della cultura contadina E' un pericolo trasferire in città un rito che appartiene alla campagna La vendetta della cultura contadina QUEL che è successo a Padova è una «vendetta della cultura». Parlando di inondazioni, straripamenti, tempeste, afa, siccità, si dice: la natura si ribella. Stavolta bisogna dire: la «cultura» si ribella. Perché una festa contadina, come la festa dell'Epifania o Befana, nata in campagna e per la campagna, non si può trasferire tale e quale in città: diventa blasfema e pericolosa. Il falò, che in campagna si chiama «brugnèlo» e che è l'altare di questa festa, non si può accendere con la benzina. In campagna il brugnèlo è un rogo altissimo, con fiamme che arrivano fino a dieci metri: un richiamo portentoso, che fora le nebbie, e stana la gente dai casolari. In città, è un pericoloso incendio, da vigilare con squadre di pompieri. E così, col tentativo di riprodurre nel cuore di una città italiana un rito arcaico delle campagne, è successo quel che succede quando mi occidentale va a una festa macumba, e ne esce turbato e sconvolto. La cultura arcaica non è più compatibile col suo cervello. La usa male, e si fa del male. Il «brugnèlo» lo si costruiva ai quadrivi (crosàre), o in mezzo ai campi non arati, prima di Natale. Da Natale all'Epifania era una gioia visitare i paesi vicini, ed esaminare i brugnèli preparati per la Befana, pronti da ardere. Erano i ragazzi a costruirli: era un rito di cui i ragazzi (maschi) erano i sacerdoti. Anche qui, niente donne-preti. Vi si accatastavano fascine, erbe, canne di mais, tutto il vecchiume dell'anno morto: il brugnèlo serviva a «bruciare il passato», e far «nascere il futuro». Il materiale era legato col fil di ferro a un palo altissimo, con in vetta la Vecia, un fantoccio dalle fattezze femminili, di paglia e stoffa, deformato e osceno. Il fantoccio era insieme brutto (per far paura), ridicolo (per far vincere la paura) e osceno, per esercitare anche uj richiamo: la festa del brugnèlo chiude l'inverno, ma prepara il carnevale. Bruciando la Vecia, si bruciavano la penuria, la fame, le malattie dell'anno passato. Poiché il rito si ripeteva ogni anno, con la sua costanza voleva ricordare a tutti che ogni anno era pieno di penuria, fame, malattie. Quando il brugnèlo ardeva (alzando bagliori rossastri: all'orizzonte della campagna si vedevano i bagliori dei falò dei paesi vicini, accesi in contemporanea, verso le 21), tutto il paese si radunava intorno, vecchi e giovani, correndo attraverso i campi e i fossi. I vecchi venivano per scaldarsi. I ragazzi venivano per cercare ragazze, e viceversa. Dal buio sbucavano le «Vecie», paesani mascherati da befane, anche queste brutte e oscene. Dino Coltro, studioso e narratore della campagna veneta, racconta che da lui, nel Veronese, le Vecie erano «ragazze» mascherate, e venivan chiamate «pasquete». Nel Veneto profondo la campagna era più puritana, e le ragazze non osavano esibirsi, neanche mascherandosi. Una ragazza che fa l'o¬ scena, sia pure per burla, resta disonorata. Queste maschere, sporche di fuliggine, afferravano qualche bambino (sempre maschio), e facevano il gesto di buttarlo sul fuoco: secondo Coltro, qui c'è un possibile residuo dei sacritici umani alla Terra-Madre. Tutto il rito è una preghiera alla Terra-Madre a uscire dal freddo, scaldarsi, svegliarsi, riprendere vita, e produrre vita. Da noi, i ragazzi mascherati giravano in cerca di ragazze, nel buio, a impiastricciarle di carbone. Era la repressione che si sfogava. Era un onore venire impiastricciata. La ragazza dimenticata si sporcava di fuliggine da sola. Bruciata la Vecia, in cima al palo, tra grida altissime dei presenti, che per far più minore agitavano catenr, veniva un'altra figura femminile mascherata, stavolta benefica, la Veceta, a portare piccoli dota, miserabili e adorabili: bagigi, o al massimo arance, molto rare. La Vecia era cattiva, la Veceta era buona. Un po' come presso i greci le Eumenidi rispetto alle Erinni. Il popolo stava intorno al fuoco, al di qua di un solco scavato per terra: dentro il solco era lo spazio del rito, uno spazio separato, e spazio separato in greco si dice «tempio». Adesso i regali sono computer, missili, astronavi, abitanti di altri mondi. Sappiamo andare sulla Luna. Ma come si è visto non sappiamo più, purtroppo, accendere un fuoco. Ferdinando Camon
Persone citate: Dino Coltro, Vecia, Veronese
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