Confucio? Fantasia italiana

Confucio? Fantasia italiana il caso. Dall'America una sorprendente tesi sul maestro del pensiero cinese Confucio? Fantasia italiana Creato a fine '500 dai missionari gesuiti LOS ANGELES generazione di BER una occidentali, la Cina della lunga marcia e della rivoluzione culturale fu simbolo di saggezza e giustizia sociale. Ma due o tre secoli prima un'altra Cina era stata molto popolare all'estero: autori come Leibniz, Voltaire e Rousseau avevano espresso profondo interesse e genuina ammirazione per gli insegnamenti di Confucio. E oggi, finita la breve parentesi maoista, Confucio è tornato d'attualità anche in patria. Se ne celebra il genetliaco con gran pompa, gli si dedicano francobolli e prestigiose pubblicazioni, i suoi detti vanno a ruba (mentre il «libretto rosso» è ormai introvabile), un ristorante di Pechino ne ha assunto il nome accompagnandolo al motto «Perché non avere il meglio?». Il tutto è molto istruttivo, sostiene un libro in uscita presso la Duke University Press, perché Confucio è un parto della fantasia europea. Italiana, per la precisione. La tesi di Manufacturing Confucianism, di Lionel Jensen, è semplice e sorprendente. Quando i gesuiti Matteo Ricci e Michele Ruggieri fondarono la loro missione a Zhaoqing, nel 1583, il Confucio che conosciamo noi non esisteva. C'era una figura tradizionale di nome Kongzi, stimata e riverita soprattutto dagli intellettuali, ma non più di altri personaggi analoghi. C'erano anche, però, due particolari importanti. Primo, Ricci e Ruggieri scelsero una strategia di integrazione, imparando i dialetti locali e vestendosi alla moda cinese. Secondo, gli insegnamenti di Kongzi sembrarono loro in perfetta sintonia con la buona noI velia che intendevano predicare. Detto fatto, Kongzi fu immediatamente categorizzato come il loro portavoce nella cultura cinese. A questo scopo, tanto per cominciare, fu ribattezza- to: invece di «Kongzi», un nome che segnalava la sua sostanziale parità con personaggi quali Guanzi, Laozi, Zhuangzi e così via («zi» vuol dire «primogenito» e «maestro»), i gesuiti adottarono per lui il superlativo onorifico «Kong Fuzi», stabilendo un'opportuna distanza dagli altri saggi (soprattutto da quelli meno facilmente assimilabili, definiti da Ricci «falsi letterati»). Questo termine fittizio fu quindi tradotto (dallo stesso Ricci) nell'italiano «Confutio», da cui derivò il latino «Confucius», e il suo portatore fu caratterizzato (sempre da Ricci) come «santo» e come «il più grande filosofo cinese». Attorno al neonato Confucio, i gesuiti organizzarono un canone, selezionando testi e passi appropriati, ordinandoli e commentandoli in modo che confermassero i precetti cristiani. Questa per esempio è la spiegazione offerta da Ricci per il termine ren («umanità»): «Il significato di ren può essere completamente riassunto nelle due frasi seguenti: Ama il Si¬ gnore di cui nulla è più grande: nel suo nome, ama gli altri come te stesso». Il Confucio dei gesuiti ebbe un successo strepitoso in Cina: le loro prediche lo diffusero fra i contadini analfabeti e gli intellettuali furono costretti a adeguarsi. Un testimone dell'epoca commenta critico e astioso: «Persone di tutto rispetto si sono convertite alle nuove idee, discutono la dottrina del Maestro Celeste e scrivono prefazioni per i gesuiti». Presto le ibride contaminazioni tra cine¬ se e latino prodotte dai padri cominciarono a circolare in Europa, dipingendo Confucium Sinarum Philosophum come un apostolum gentium e provocando l'entusiasmo di cui si è detto. Il libro di Jensen non è un capolavoro: fra ammiccamenti a Rorty e a Derrida e preoccupazioni di politicai correctness, spreca molto spazio che potrebbe essere utilmente occupato da più approfondite analisi storiche e letterarie. L'impressione che se ne deri va è quella di una proposta un po' troppo ambiziosa per il materiale documentario presentato. E, facendo tesoro di queste debolezze, gli studiosi nel ramo stanno già lanciando i loro stra li: accusano l'autore di dire as dità ià surdità oppure cose già risapute (o magari tutte e due). Ma è innegabile che, al di là degli isterismi provocati dall'industria editoriale, qualcosa di vero ci sia. E questo qualcosa fa rifletteerisce che una cultura è re. Suggerisce che una cultura è spesso teatro (e frutto) di prò fonde ambiguità, in due sensi fra loro contrapposti e complementari. Da un lato infatti quel che è «nostro» non è che il riflesso di quanto altri pensano di noi. Dall'altro ci è naturale riconoscerci in un'idea «che viene da lontano» solo perché, sotto la parrucca e i baffi finti, la sua immagine è del tutto familiare è l'immagine di qualcosa che è nato e cresciuto sotto casa. Ermanno Bencivenga visseil m In origine c'era Kongzi, leggendario sapiente venerato dagli intellettuali dei posto. Ricci e Ruggeri ne fecero un filosofo-santo che confermasse i precetti cristiani A sinistra Confucio, vissuto nel VI secolo a. C. A destra il missionario

Luoghi citati: America, Cina, Europa, Los Angeles, Pechino