I curdi, un popolo senza futuro

I curdi, un popolo senza futuro I curdi, un popolo senza futuro Venticinque milioni derubati di una patria ■ curdi coltivano l'Islam (ma non B pochi di loro sono cattolici di riH to caldèo), arricchendolo con la mitica cavalcata del Saladino, il niente affatto «feroce», liberatore di Gerusalemme; uomo giusto, rispettoso della fede dell'Altro, ch'è, appunto, un curdo nato nello stesso villaggio di Saddam Hussein: Takrit. Ma il dittatore, che non è curdo, i curdi li odia, li uccide. Do you remember Halabja? Il 18 di marzo del 1988, nel volger di 40 secondi, cinquemila persone, tutte curde, morirono asfissiate da un turpe cocktail di gas: il nervino, il cianuro, l'iprite. Quello sterminio è stato immortalato da un occasionale cinereporter: bambini, vecchi, dorme fulminati mentre staimo varcando la soglia di casa, o giuocano, o fumano. Una nuova Pompei. Asiatica. Voluta da Saddam «nel quadro della campagna di arabizzazione». (A un generale russo che chiedeva a Saddam «perché Halabja», il dittatore rispose che la vendette è un piatto da mangiarsi freddo). Nel 1974, alla vigilia dell'autunno, grazie a Sandro Viola che mi forni tutte le coordinate, trascorsi ima settimana coi curdi in guerra contro l'Iraq. In quel tempo lontano, i curdi conducevano una resistenza appoggiata, morganaticamente, dallo Scià. Sapevano che per loro non sarebbe mai stato possibile farcela col possente esercito iracheno ma gli bastava, come mi disse il comandante Barzani, «combattere finché avremo un sorso di vita: per non uccidere la speranza, per rivendicare i nostri diritti alla terra che ci ha visto nascere». Il generale Mulla Mustafa Barzani aveva allora 72 anni, ne dimostrava 50, lottava dal 1931 quand'era soltanto «un giovinotto innamorato della vita, della libertà, delle donne belle». Lui, il vecclùo, non si faceva illusioni, era pessimista però s'indignava pel fatto che gli Stati Uniti «non capissero»: «Gli han messo in testa che siamo tutti comunisti e tanto gli basta per lasciarci alla deriva. Questa è la cassaforte mondiale del petrolio. La violenza, il disprezzo dei diritti dell'uomo, finiranno col trasformarla in una polveriera che un giorno esploderà; a quel punto il caos ci divorerà tutti o, peggio, farà impazzire il mondo». Congedandomi: «Vede - disse amaro -, per capire cos'è l'America basta guardare cosa accade a New York quando scoppia un incendio: fan più danno i pompieri che le fiamme». (Barzani morirà proprio negli Stati Uniti, nel 1976. Esule). Il mio viaggio fu lungo, faticoso ma senza pericoli, sino al villaggio di montagna dove il generale mi aveva destinato. Vi rimasi una settimana. Di quell'esperienza remota conservo il sapore oleoso del celokebab (riso e carne di montone affogati in un rosso sugo pesante), e negli occhi la bellezza delle donne. Non portano il velo, s'ammantano di panni usciti dalla tavolozza di Kandiskij. Ma nel cuore, nella mente, ficcata come un chiodo biforcuto, m'è rimasta una ninnananna che l'ultima notte ascoltai su quella montagna curda. Più tardi, l'epico Abdulrahman Ghasslmlou, fondatore e segretario generale del PKI, il leader ucciso nel 1989 a Vienna, da emissari coi quali avrebbe dovuto trattare, mi tradusse in francese quella ninnananna-nenia. Vi prego: leggetela. Attentamente. Capirete chi sono i curdi. «Piccolo, figlio mio bambino I fiore del mio campo / tu mi domandi perché mai io, tua madre, t'abbia incatenalo alla culla I e stretto coi ceppi i teneri polsi. I Tu sei un curdo fiero, figlioletto / infiniti eroi affollano il tuo passato / ma oggi il curdo è solo, nessuno l'aiuta /ed io ti metto i ceppi, le catene, bambino /figlio dell'anima mia e del sangue di tuo padre / cuore mio delicato / per abituarti / al carcere. / Ti metto in catene perché tu possa far l'abitudine ai ceppi / figlio I perché tu possa sopravvivere I un giorno / al tormento della prigione. I Dormi, piccolo mio I mia speranza in mille domani sconosciuti». Mentre scrivo è in corso uno sciopero della fame di detenuti curdi e «fiancheggiatori». Giacciono nelle loro cuccette luride: incatenati. ((Affinché non cadano dal giaciglio, deboli come sono», spiegano i carcerieri. Non è tutto: nella recente «punizione» che Saddam ha inflitto a ot¬ tomila «dissidenti», tra i morti ammazzati i curdi non scarseggiano. Da parte loro: «nel solo 1997 abbiamo eliminato ottomila guerriglieri curdi», proclamano fieramente i turchi che, tuttavia, «deplorano» la «incomprensibile fuga» dei curdi e (confortati dall'ipocrisia di alcuni politici tedeschi) pretendono, dall'Italia che gli rispedisca gli «espatriati clandestini». Ma si può espatriare clandestinamente, e a bordo di grossi bastimenti, dal trafficato (e sorvegliato manu militari) porto di Canakkale? Impossibile. Dicono che i turchi fingano di non sapere, per «vendicarsi» dell'anello più debole dell'Europa, quell'Italia che insieme con gli altri partners della Ue ha, diremo, «sospeso» l'ingresso della Turchia in Europa sin quando i Diritti Umani non verranno rispettati da Ankara. («Aspetta e spera», come cantano gli ergastolani). Quella dei curdi è la storia di una disgrazia antica ma anche di un tradimento eterno. Nel secolo scorso il potere ottomano ripudia l'autonomia che i curdi si sono guadagnata addirittura nel 1514 combattendo col sultano Selim I contro lo scià Ismail. Di seguito allo sfascio dell'Impero ottomano, il trattato di Sevres (1920) «prevede» un Kurdistan indipendente. Ma resterà lettera morta per la vittoria di Mustafa Remai. Ancorché appoggiato dai curdi nella sua guerra di indipendenza, il futuro Ataturk costruirà uno stato «essenzialmente turco e moderno» le cui prime vittime saranno proprio i curdi. Nel 1923, col trattato di Losanna, il Kurdistan viene smembrato in cinque parti. Prima dell'attuale, l'ultima tragedia è cronaca non ancora fredda. Dopo la disfatta di Saddam, i curdi, sostenuti dalla Cia, aizzati dai turchi, sospinti dagli iraniani, acclamando Bush hadji, Bush il savio, scendono in campo contro Saddam. Ma il dittatore, dopo il primo sbandamento, che coincide con l'effimera conquista di Kirkuk da parte dei curdi, passa al contrattacco innaffiandoli di napalm, di bombe al fosforo. Gli Stati Uniti non si muovono, gli «alleati» arabi di Bush non fanno una piega, l'Europa, come da copione, si indigna. Ma stavolta temo che indignarsi valga poco. Dobbiamo preoccuparci, e molto, invece. Dice niente Strasburgo? Dice niente la sollevazione di quei ragazzi, l'attacco selvaggio ai simboli dell'Europa opulenta nella notte di San Silvestro? Il vecchio cronista non crede che quei giovani, beurs e non, si siano scatenati mossi soltanto dall'impeto dell'orche, ovvero il bisogno di abbandonarsi all'impulso del momento. Sembra piuttosto di capire, «osservando i loro atti e i loro discorsi», che quello cui davvero aspirano è il libero riversarsi «della vita nella vita», come lucidamente scrisse, proprio su questo giornale, Nicola Chiaromonte, «cercando di capire il 68 e quel che ne deriverà». Scrisse: d'immaginazione al potere?, perché no. Anche perché, a pensarci bene, è un nuovo fatto religioso, chiamato solidarietà. Attenzione: per sconfiggere la (voluta) miopia del «borghese (europeo) piccolo piccolo», per fugare il suo stolto curarsi esclusivamente del proprio particolare gioverà ricordargli che poiché il dolore stanca un giorno potremmo avere l'alleanza senza misericordia di curdi e armeni. Di rwandesi e di algerini. E di somali, di coreani, di cinesi. Potrebbe addirittura avverarsi la profezia di Kant: «... una pace universale e durevole ottenuta mediante il cosiddetto equilibrio delle potenze eu ropee è semplicemente una chimo ra, tal quale quella casa di Swift ch'era perfettamente costruita se condo le regole deU'eciuilibrio così che, non appena un passerotto vi si posava, immmediatamente crollava». Certo, mi dice il cardinale Silvestrini che la tragedia dei curdi (caldèi e non) conosce per il suo ufficio di Prefetto delle Religioni Orientali, «la città di Dio di Agostino non si vede ancora, ma è lì, da oltre un millennio, e per coglierne la santa sostanza basterebbe verosimilmente conciliare lo sviluppo con la tutela dei deboli. Impresa difficile, però non impossibile». Come a dire che è più facile coniare una nuova moneta unica che resuscitare la Solidarietà, sorella indivisibile della Gratuità». Difficile, non impossibile, tuttavia.