le crisi di domani di Mimmo Candito

 le crisi di domani Negli scenari geopolitici del mondo sono aperti almeno una trentina di punti caldi le crisi di domani Fondamentalismo, guerre tribali e economiche ANALISI ALLA RICERCA DELLA PACE ON è affatto la terza guerra mondiale, ma la decisione americana di cominciare ora a vaccinare contro l'antrax più di 2 milioni di suoi uomini in armi, tra soldati e riservisti, ci sbatte addosso fantasmi che sembrava possibile dimenticare nel ripostiglio delle memorie. A poche centinaia di giorni dal nuovo millennio, nemmeno questo «secolo breve» trova il modo di chiudere per sempre i propri conti. Ma se guerre e massacri (dall'Africa al Caucaso, al Kurdistan), morti di grandi leader (Deng e Mobutu), e gesti di valore rivoluzionario (gli inviti di Castro e di Khatami), hanno continuato a cambiare la faccia del nostro mondo anche nell'anno appena chiuso, si può costruire un'indagine interessante anche sul passato se il recupero della memoria viene proiettato all'interno dei processi di crisi che quelle trasformazioni hanno avviato, o comunque consolidano. E allora, pur tenendo conto del ruolo egemone che gli Usa si sono guadagnati in incontaminata esclusiva, motiva qualche sorpresa dover accettare che non ci sia oggi area del pianeta che non presenti scenari di turbolenza. Che poi gli scenari si muovano lungo frontiere che trasgrediscono le classificazioni di Huntington per la sistemazione del mondo nuovo, è storia a parte. Una prima sorpresa arriva già dal cuore dell'Impero. Nel numero ora in uscita della rivista «Foreign Affaire», Fred Bergsten scrive un lungo saggio per spiegare come «sulla base delle previsioni che oggi sono possibili, un flusso di denaro e investimenti per più di 1000 miUardi di dollari si travaserà dalla moneta americana alla nuova moneta europea. L'impatto politico dell'euro sarà travolgente». Bergsten non è soltanto uno scienziato che studia teoremi finanziari, con il prestigio che gli dà il ruolo di direttore dell'Institute for International Economics; Bergsten è anche un uomo concretouno che negli affari di Stato ci h1998, tuttemesso le mani fino a coprire a Wa shington l'incarico di sottosegretario al Tesoro. E se lui dice che la politica mondiale - cioè la gestion americana del potere e delle risorse - sarà presto investita da un mezzo ciclone, c'è qualche motivo per dargli credito. Oggi le finanze mondiali sono spartite pressappoco alla pari tra il dollaro e l'«euro», con un 40 per cento a testa (il 20 per cento residuo va ai poveri svizzeri e allo yen); ma la centralità del dollaro nel controllo dei flussi finanziari internazionali è tuttora il carattere prevalente del sistema che regge l'economia del pianeta. Questa centralità è destinata ora a finire, e a cedere spazio a un sistema bipolare, dove gli Stati Uniti e l'Europa dovranno saper trovare un nuovo punto di equilibrio. Un esempio tra i molti, i 250 miliardi di dollari che il Giappone investe in buoni del Tesoro americano: se l'euro diventa una credibile alternativa agli investimenti in dollari, si aprono opzioni che possono incidere sulla stessa quotazione della moneta Usa. Le diffidenze che una parte del mondo finanziario (e politico) americano manifesta verso la nuova moneta europea sono già il segnale di una crisi possibile. L'euro avrà vita ufficiale dal 1° gennaio del '99, però il suo atto formale di costituzione verrà posto già quest'anno. E anche se ad aderirvi inizialmente sarà un gruppo ridotto dell'Ue, con la probabile presenza anche dell'Italia, comunque la sua dimensione economica avrà una misura comparabile a quella degli Stati Uniti e a quella del Giappone. Però, allo stesso modo di quanto si dice per il Giappone, anche per l'Europa questa sua nuova realtà economica non è accompagnata, finora, da una presenza politica adeguata nel contesto internazionale perché i 15 (o comunque il gruppo dei Paesi che da subito entreranno nell'euro) non hanno una comune politica della sicurezza, né una politica estera comune: la EX JUGOSLAVIA resta un monito che ancora non è possibile assorbire, e soldati e cannoni della Nato sono sempre B a ricordarcelo. Tuttavia, la capacità di attrazione del nuovo sistema monetario accelera inevitabilmente il processo della unificazione, e dunque «minaccia» già - cioè mette in crisi - i vecchi equilibri dominati dal sistema del dollaro e dalla potenza pohtico-militare Usa. Un altro scenario rilevante di crisi si disegna in ASIA, ma non soltanto nelle ricche province del Sud-Est asiatico. Quello che la batosta finanziaria subita da Corea del Sud, Thailandia, Indonesia, e da tutti i dragoni dell'Asean, ha messo in evidenza lo scorso anno non è soltanto la stupefacente fragilità di un processo di crescita economica incapace di contrastare gli squilibri strutturali dei sistemi sociali. Dietro la caduta dei mercati borsistici è passato anche il convincimento - imprevisto, e amaro - che vada messo da parte l'orgoglio della nascente identità asiatica in opposizione al centralismo occidentale. Le dure rampogne «nazionaliste» del premier malaisiano Mahathir - con il dito puntato contro le manovre politiche dei grandi organismi finanziari «controllati da Washington» - hanno dovuto zittirsi di fronte all'evidenza di una incapacità dei singoli Paesi (e dello stesso gruppo Asean) di gestire in autonomia un'uscita controllata dalla crisi. In un anno, il won coreano ha perso il 50 per cento del proprio valore, il bath thailandese il 65 per cento, e la rupiah indonesiana il 92 per cento: sono le cifre di un disastro che ha messo in discussione perfino la guida politica dei sistemi economici, ma soprattutto ha tolto repentinamente credibihtà alle prospettive di un progetto di sviluppo avviato a puntare su nuove, organiche, partnership. Tanto il Giappone, infatti, quanto la Cina si sono mostrati inadeguati a rispondere alle urgenze che i Paesi in crisi andavano manifestando. E il primo summit che l'Asean ha tenuto a Kuala Lumpur con i tre Grandi dell'Asia (la Cina, il Giappone, e la Corea di Seul) ha dovuto riconoscere una «mancanza di fiducia», sanzionando in pratica il fallimento - almeno in questo stadio della crisi - di ogni referenzialità interna all'Estremo Oriente. La QUA si è mostrata interessata a proteggere le riserve in moneta pregiata piuttosto che a impegnarsi in un'operazione di salvataggio a largo spettro d'intervento; e anche se ha contribuito a dare un aiuto alla Thailandia con 1 miliardo di dollari, ha però cancellato ogni riferimento precedente a più alte ambizioni regionali e mondiali (incluso l'inserimento nel gruppo del G-7). Le dimensioni del mercato interno, il basso livello d'indebitamento, e la ridotta convertibilità, hanno tenuto Pechino fuori dalla crisi finanziaria; ma il soffocamento di due mercati-chiave come la Corea e il Giappone investe direttamente le prospettive di sviluppo. E il sucesso della visita di Jiang Zemin in Usa non basta a confortare il progetto di nascita di una nuova superpotenza. L'allievo ha ancora da studiare. Quanto al GIAPPONE, la sua forza economica (che da sola vale il doppio dell'intera Asia) l'ha finora lasciato al margine della crisi dei mercati regionali, Ma la flessione del Pil, e la caduta di fiducia degli investitori, aprono ipotesi drammatiche che soltanto qualche anno fa sarebbe stato folle, o comunque insensato, immaginarsi. I rischi di una recessione si vanno facendo sempre più alti, con un'economia che nel terzo quadrimestre del '97 ha segnato il risultato peggiore degli ultimi 25 anni; e il contesto regionale finisce per aggiun¬ gere orizzonti inquietanti a un andamento produttivo che appare incapace di piegarsi alle nuove regole della mdeterminatezza. Ancora una volta, il Giappone si conferma inadeguato al ruolo della leadership, limitandosi a svolgere le funzioni di banchiere asiatico; e in quest'ottica si spiega anche il nuovo accordo strategico con gli Usa. In reazione alla firma di questo patto, Cina e Russia hanno trovato subito il modo di riavvicinarei, recuperando triangolazioni antiche, tipiche degli anni della guerra fredda; ma il basso profilo che Tokyo continua a tenere verso i suoi vicini di casa non ha ancora contribuito a migliorare l'immagine del Giappone nella società asiatica, segnata tuttora dal- le memorie deU'imperialismo nipponico. E la stabilita è un processo politico per il quale storia e cultura - non soltanto la gestione degli affari - giocano un ruolo di rilievo. Nell'ARUCA del nuovo anno, le linee che incidono i percorsi della geopolitica tracciano una mappa profondamente mutata rispetto a quella di un anno fa. La guerra che si è combattuta (e parzialmente chiusa) nella regione dei Grandi Laghi ha creato nuove leadership, cancellando la lunga eredità dell'influenza francese e promuovendo una inedita attenzione americana verso le terre, e le ricchezze minerarie, del «cuore di tenebra». L'Uganda di Museveni, e il Congo inquieto di un guerrigliero guevarista convertito, sono il pilastro militare ed economico del nuovo domino; sul terreno, i mercenari controllati dai giovanotti rampanti di Rigali offrono lo strumento concreto per assicurare l'egemo nia di quella trojka tutsi che sembra destinata a godere dell'appog gio, tattico ma non solo tattico, di Washington. La spallata violenta che l'entrata di Rabila a Kinshasa ha dato all'intero equilibrio del l'Africa subsahariana ha aperto un processo di contraccolpi che si allarga verso ogni orizzonte. Vi re stano coinvolte componenti di let tura completa, che dalla guerriglia delle Pontiere angolane si spingono fino al Mar Rosso: il pe trolio e le ricchezze minerarie di quelle terre si accoppiano alla creazione di una cintura di sicu rezza che possa tenere sotto con frollo la rischiosa centrale di destabilizzazione del SUDAN. E l'uscita di scena di Mandela, che è un annuncio ma già anche una realtà, aggiunge un ulteriore elemento di incertezza al difficile progetto di ricomposizione della crisi. Madeleine Albright ha portato in Africa le contraddizioni obbligate di una politica che il Wall Street Journal ha definito del «vacci piano e metti da parte il ba stone», che è una scelta nella qua le la logica di far tacere ogni ripro vazione sui massacri in Congo e in Ruanda si piega al timore che il ri tiro dell'appoggio politico inneschi un processo incontrollabile di destabilizzazione. Kissinger fu maestro di questa Realpolitik, verso la quale comunque il Dipartimento di Stato ha mostrato sempre grande capacità di adattamento (Somoza e Roosevelt ne ricordano l'esempio-limite). E a questo stesso realismo tattico si piega la rigidità che Clinton va dispiegando verso Netanyahu. Il congelamento del processo di pace in MEDIO ORIENTE rischia di far morire ogni residua speranza di riaprire un dialogo concreto con Arafat; mostrare a Netanyahu il muso duro può mutare convincimenti, e scelte di governo, che il tempo rivela più pericolosi di un barile di dinamite. Washington ha infatti preso nota accurata della ripresa dei rapporti politici tra la SIRIA e l'IRAQ, come del successo ottenuto dagli ayatollah uraniani nel progetto di un ricompattamento del mondo islamico. I tempi del «Desert Storm» sono lontani, le minacce a Saddam non trovano molti seguaci, né adesioni fervide; una fase del progetto di pace regionale si è chiusa, occorre mutare strategia. E anche la politica della «esclusione» praticata verso TEHERAN non dà più risultati, perché il dialogo critico sostenuto dai Paesi europei si è guadagnato un processo negoziale (e congrui traffici) dai quali Washington ha voluto autoescludersi. Khatami è ora un progetto credibile, il Dipartimento di Stato gli ha già mandato una risposta (riservata ma) interlocutoria. Tutto si muove, dunque, tutto si tiene: le preoccupazioni israeliane per il programma nucleare iraniano vanno a scontrarsi con il nuovo corso pubblicizzato da Teheran, e diventa sempre meno immaginabile un'operazione simile a quella compiuta anni fa sul reattore iracheno. Oggi più che mai, «buoni» e «cattivi» non sono categorie impermeabili; ne perdiamo in certezze di giudizio, ma ne guadagna la politica. Che, come tutti sanno, è l'arte del compromesso. Aite difficile comunque, in un mondo che spende miliardi di dollari in armi e lascerà morire di fame, anche ih quest'anno che ora si apre, 6 milioni di bimbi. Mimmo Candito L'avvento dell'euro rischia di scatenare un ciclone nella finanza mondiale In Africa la incerta novità del nuovo ordine americano L'importante chance, legata a Khatami l l il Di