La democrazia aggirata di Domenico Quirico
La democrazia aggirata La strategia spregiudicata del presidente padrone La democrazia aggirata GLI avversari lo hanno soprannominato «Moi-butu»: un po' per sarcasmo ma soprattutto per scaramanzia. Se perfino il dinosauro zairese è caduto, forse era suonata la campana anche per il sinuoso dittatore che da diciannove anni guida con ostinata sicurezza il Kenya attraverso gli inferi della normalità africana: corruzione, caos etnico, violenza, crisi economica, fame. E invece il futuro di un popolo che si è ormai santamente abituato alla regolare e consuetudinaria trasgressione del settimo comandamento è destinato ad assomigliare terribilmente al passato. Nonostante i settantanni, le rampogne del Fondo monetario e degli ex amici inglesi e americani, e il moltiplicarsi degli avversari, l'erede di Jomo Kenyatta ha dimostrato di maneggiare con la consueta sicurezza le alchimie del potere. Anche per la seconda edizione delle elezioni multipartitiche l'occidente ha commesso il consueto errore: applicare, cioè, categorie di giudizio e di previsione «normali» alla versione africana della democrazia, dove gli organismi che danno l'impressione della libertà sono istituzioni decorative, per tenere quieto il popolo. Se un Paese è sulle soglie della catastrofe e gli viene concessa la chance di scegliere il suo fu¬ turo, normalmente, non dovrebbero esserci dubbi sul risultato. Basta cautelarsi con una spruzzata di osservatori neutrali spediti qua e là a prevenire i brogli più macroscopici e tagliare i fondi al despota locale. Al resto penseranno gli elettori. Purtroppo non è così, come dimostrano i trionfi elettorali dei despoti africani. Arap Moi ha subito capito che la democrazia, invece di essere un pericolo, offre strabilianti occasioni di tradimenti, inganni, imboscate. In sei anni di multipartitismo, ad esempio, il numero dei partiti c salito da dieci a venticinque e quello degli aspiranti presidenti si è moltiplicato. Risultato: l'opposizione non riesce a formare un cartello comune per far convergere i voti su un unico condidato. Il secondo pilastro della democrazia «alla Moi» poggia sullo etnie. In Africa tribalismo e democrazia tendono naturalmente a riunirsi, si attraggono e si combinano chimicamente come l'idrogeno e l'ossigeno. La maggior parte dei rivali sconfitti di Moi, infatti, aveva basi politiche esclusivamente tribali: in cambio dei voti promette di regalare le chiavi del potere e soprattutto della cassaforte. La tribù di Moi, i kalenijn, è nimuscola e non avrebbe nessuna chance quando si contano i voti. E allora provvedono i miracoli dell'anagrafe: i kalenijn, al¬ l'epoca dell'impero britannico, erano così pochi da non essere nepp\ire censiti tra le etnie del Paese, ma secondo il censimento dell'89, quello usato per le elezioni, sono misteriosamente saliti a oltre il dieci per cento dela popolazione. Il Fondo monetario pensava di aver fatto una mossa decisiva: aveva bloccato i prestiti come punizione dopo che l'entourage del presidente si era impadronito di somme colossali nei forzieri della banca centrale. Ebbene, gli ha fatto mi gradito regalo: i suoi pretoriani hanno potuto attingere senza problemi di immagine dalle casse deÙo Stato i soldi per la campagna elettorale. E non solo per magliette e comizi: in numerosi seggi gli uomini del Kanu, il partito al potere, compravano le tessere elettorali a 500 scellini. Adesso per la comunità internazionale, dopo i mugugni platonici del dopo voto, si pone il solito problema: cosa fare? Si può aspettare che la fuga dei turisti e soprattutto degli operatori economici spaventati dala violenza dilagante e dalla corruzione diventi inarrestabile alluvione, scheggiando gli inesauribili depositi di pazienza del popolo keniota. Ma c'è il rischio di dover affrontare presto una nuova Somalia. Domenico Quirico
Persone citate: Arap Moi, Jomo Kenyatta, Kanu
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