La sfida al pericolo un obbligo di famigl di Gabriele Romagnoli

La sfida al pericolo un obbligo di famigl La sfida al pericolo un obbligo di famigl EDUCATI AL RISCHIO NEW YORK DAL NOSTRO INVIATO Avviso ai naviganti: non salpate con la tempesta, potreste essere speronati dalla barca di un Kennedy stracarica di bambini biondi senza salvagente. Avviso ai pedoni: non attraversate di notte le strade d'America, potreste essere falciati dall'auto di un Kennedy che viaggia contromano, a l'ari spenti. Avviso ai piloti: se siete in quota, sorpresi da mi temporale, attenti alle nuvole, potrebbe sbucare il charter di un Kennedy decollato tra i fulmini. Lo fanno, lo hanno sempre fatto. E ancora: giù per le rapide sui canotti; fuoristrada a tutta velocità sulle jeep; fuoripista sugli sci giocando a football; da un tetto all'altro saltando sul vuoto. Da un rischio all'altro, con disprezzo comprensibile per la propria vita, meno per quella del passeggero seduto a fianco, sventurato compagno dell'infinita roulette russa della famiglia Rischiatutto. Finiscono schiantati, ribaltati, spiaccicati. Contro una montagna, un'onda gigante, una betulla. Nel nome del padre (Joseph) e nel segno del suo motto da telefilm western: «Un Kennedy ò troppo coraggioso per avere paura, troppo tosto per mostrare emozioni». E allora via, ragazzi, mostrate al mondo quanto siete audaci. Si comincia con la seconda guerra mondiale. John Fitzgerald torna dal servizio in marina «bello di fama e di sventura», con le stimmate dell'eroismo sulla schiena, che lo costringeranno per sempre a una camminata stanca e a performance sessuali lampo, per non affaticare la colonna vertebrale. Il fratello Joseph jr., principe ereditario, non potendo essergli da meno, decolla volontario per una missione di guerra con l'aereo imbottito di esplosivo e fa i fuochi artificiali sulla Manica. Passano pochi anni e il cielo gronda nuove lacrime a forma di cadaveri Kennedy. E' il 1948 quando Kathleen e il suo compagno si alzano in volo contro una muraglia di nuvole nere e contro la volontà del pilota, ricadendo al suolo in terra di Francia. E' il 1964 quando, in circostanze inutilmente analoghe, il cielo sopra Springfield scarica il charter del senatore Edward, restituendolo alla terra ferito, ma uccidendo i suoi due compagni di viaggio. Poco più tardi il cielo sopra Harvard ospita il passaggio ful- mineo del giovane Robert jr., senza ali né carlinga, solo con se stesso e il proprio dovere di mostrare l'audacia dei Kennedy a un compagno di corso, vincendo la sua sfida, saltando da un tetto all'altro di due dormitori di sei piani, annullando con il balzo una distanza di tre metri e mezzo. L'atterraggio gli è dolce e fo- riero di insegnamenti. Anni dopo lo ritroviamo su una collina dell'Alabama, in una notte sceneggiata dalle parole di una canzone di Mogol e Battisti, intento a «guidare a fari spenti nella notte, per vedere se poi è così difficile morire». Un Kennedy dovrebbe saperlo che non è poi tanto difficile, eppure Robert junior non ci riesce, né lui né il suo autista, nonostante scendano al buio, contromano, ai centotrenta all'ora. Non ci riesce neppure Joseph II quando, nel 1973, conduce la sua jeep fuoristrada e rimbalza tra le rocce. Dall'auto rovesciata, ruote all'aria, lui esce con le sue gambe, la sua compagna d'avventura, Pam Kelley, no: resterà paralizzata. David Horowitz e Paul Collier, autori del libro «I Kennedy: una tragedia americana», riferiscono che un vicino della residenza del clan a Hyannis Port raccontava di aver visto uno dei padri di famiglia cercare di salpare in una giornata di burrasca con la barca stipata di bambini festosi, tutti senza salvagente. Ricordano che Michael Le Moyne, l'ultima vittima dei mortali giochi di famiglia, mostrava ammirato le foto del padre impegnato a fare rafting lungo fiumi impetuosi, dicendo: «Era l'uomo più coraggioso di tutti». Non perché volesse contrastare Jimmy Hoffa o Sam Giancana, ma perché si faceva sballottare dalla corrente, aggrappato alle corde di un gommone. Inutile avvertirli: è pericoloso. Vano ammonirli: è contro le regole. Scrive Peter Collier: «Questa famiglia conosce una sola regola: non esistono regole». Questa famiglia spaccia l'incoscienza per coraggio, la temerarietà per eroismo. Non salvano la vita a quelli che camminano al loro fianco, gliela mettono a repentaglio. Li scaraventano nei laghi o nei crepacci, coinvolgendoli nella loro infantile sfida al destino. Questa famiglia circonda le tenebre di luce, ma sono riflessi di un fulgore lontano e perduto, barbagli dell'imperituro sorriso di Robert, l'unico degno di chiamarsi Kennedy, se questo è un onore davanti alla Storia. Dicono che questa coazione al rischio sia un'ordalia familiare, una prova da superare per avere il diritto al cognome e che sia ormai diventata un connotato visibile. La chiamano: l'aura dei Kennedy. Da studiare come una malattia, degenerazione di un virus che già contagia tutti noi, nati maschi e che prima o poi nella vita abbiamo frainteso il ruolo, sentendoci chiamati a dimostrarlo volando nella notte appesi al paracadute trainato da un motoscafo o chiudendo gli occhi e buttandoci dal ponte agganciati a un elastico, le braccia perpendicolari al corpo. Nascere Kennedy significa sottoporsi ogni giorno a una prova del genere: grandiosa nella sua inutilità più che nella sua audacia. C'è un piccolo Michael jr. pronto a raccogliere l'eredità del padre e di tutti i Kennedy. E ci sono giovani virgulti di betulla pronti a crescere lungo i pendii del Colorado. Vinca il migliore. Gabriele Romagnoli Un'impressionante serie di incidenti Sopra, il giovane scomparso A destra lo zio Ted Kennedy

Luoghi citati: Alabama, America, Colorado, Francia, Hyannis Port, New York, Springfield