Doping, e vado al massimo di Gian Paolo Ormezzano

Doping, e vado al massimo Doping, e vado al massimo Gian Paolo Ormezzano LO sport del secolo ha cavalcato con bella costante disinvoltura l'ecumenismo olimpico - utopia? sì, no tra unità e boicottagi, l'ipocrisia dilettantistica, la politicizzazione da regime, la statalizzazione spinta, la liberalizzazione spinta, la globalizzazione televisiva, la sottomissione alla pubblicità, l'alluvione del denaro. Non ce l'ha fatta a cavalcare il doping, è stato anzi dal doping cavalcato. Non ò riuscito neppure a definire il doping, sia come etimo chiaro che come effetto scuro. Lo sport di fronte al doping sta a guardare: come fosse, appunto, dopato. O drogato, persino qualcosa di più. La parola "doop" comunque è olandese, sta a indicare una pozione, una mistura, anche una miscela lubrificante, una mescola. Agli inizi della sua vita pubblica il "doop" era sia un prodotto vischioso messo sotto le suole per non scivolare, sia una zuppa particolarmente energetica per i muratori d'Olanda che erigevano Manhattan in quella che allora era Neue Amsterdam, non ancora New York. Poi il "doop", intanto che in inglese perdeva una "o", si sviluppava nella parola "doping", intesa come arte del "dop", si è affermato sempre più, sempre meglio (in senso pratico, non etico) come prodotto atto a incrementare la prestazione fisica. Nel tempo relativamente breve di un secolo è stato deciso o comunque accertato che: 1) il doping ò sempre esistito da che sport ò sport; 2) non c'è niente da fare in assoluto contro il doping, perchè continuamente il cosiddetto progresso offre armi d'offesa più sofisticate delle armi di difesa, di controllo; 3) c'è qualcosa da fare nel relativo dei controlli, del commercio di prodotti vietati e persino dell'educazione, della prevenzione; 4) in ogni caso la resa, anche se travestita da liberalizzazione, non è concepibile, ammissibile, praticabile, per chiare ragioni morali. Detto questo, c'è la possibilità anzi il rischio che il doping venga accettato, venga combattuto soltanto per alcuni suoi aspetti, venga colpito più amministrativamente che moralmente? Pensiamo proprio di si. C'è fra l'altro la tendenza a considerare quella del doping come una sfaccettatura del vasto poliedro della chimica applicata alla vita moderna: i prodotti ci sono e funzionano, nuovi prodotti vengono continuamente proposti, non è neppure certo che scalare una montagna a pane e acqua sia meglio che scalarla ben aiutati dalla scienza. E poi viene detto, come a proposito dell'erba da fumo: che cosa è questa ipocrisia di colpire certi prodotti e intanto di autorizzare alcol e tabacco, persino tassandoli per far soldi? Ecco perchè pensiamo che il doping abbia cavalcato lo sport. Ecco perchè molti dicono che se non altro adesso, a doping constatato dovunque e comunque, si è meno ipocriti o ingenui o ignoranti di una volta: quando Dorando Pietri che crollava a pochi metri dalla fine della maratona olimpica di Londra 1908 e, troppo aiutato dai giudici, veniva squalificato, faceva pena e tenerezza, commuoveva anche la regina d'Inghilterra che gli regalava una bella coppa, e riusciva a far sì che non si parlasse del suo cocktail micidiale di stricnina e vino rosso. E' persino possibile, senza fare troppi sforzi di immaginazione, ravvisare nella vicenda del doping una esaltazione mistica e ciclica del sangue e dei suoi poteri. Da sempre i guerrieri si nutrono di sangue, per essere più forti: quello della carne dei loro immani banchetti ma anche quello dei nemici, assunto in speciali tremende pozioni. Adesso l'assunzione dell'eritropoietina, del prodotto che fa crescere artificialmente il numero dei globuli rossi, si può allacciare alle pratiche del sangue, preso dalla carotide umana o dalla bistecca bovina, di un tempo lungo, da mille anni prima a duemila anni dopo Cristo. Davvero, per poco che si conoscano le radici e gli agganci del doping, è foite la seduzione di accettarlo non come frode sportiva, ma come indispensabile rituale "forte": per vincere la guerra, la gara, per offrire il meglio show. Ed è troppo forte la tentazione di trattare il doping dei campioni con una sorta di ammirazione: tutti sapevano che Fausto Coppi il Campionissimo si metteva due dita in gola, all'arrivo, e vomitava, a liberarsi di qualcosa di illecito o comunque misterioso che aveva ingurgitato, ma la cosa veniva sottolineata come ammirando un fachiro della fatica. Eticamente l'assunzione di doping per elevare la prestazione in assoluto, senza truffa nei riguardi di un avversario, può venire addirittura accettata bene. Nino Defilippis, che pedalava ai tempi di Coppi, si stupì quella sera a Parigi ve- dendo il grande Fausto prendere pastigliette di simpamina anche per le fatiche di una semplice riunione di pista, però accettò quasi ammirato la spiegazione del suo dio: "Qui c è tanta gente che ha pagato e che vuole da me il massimo. La vera disonestà consisterebbe nel deluderla, nel non offirle lo spettacolo che aspetta". Da una affermazione a suo modo nobile all'affermazione furba cioè al "tutti lo fanno, se non lo faccio anch'io sono l'unico scemo", c'è spazio per un iter mentale, psicologico e anche morale. Adesso il ragazzino del ciclismo assume il doping anche per non deludere l'alle¬ natore; non vanificare i sacrifici finanziari dei genitori, e tutto sommato riesce a sentirsi simile alio studente che si rimpinza di eccitanti per stare sveglio a studiare. La vicenda del doping è ormai così vasta, così ramificata, e intanto così importante dal punto di vista economico, con fatturati enormi, e così incarnata in campioni celebri, che viene difficile elevarle contro un muro assoluto. Ci vorrebbe il morto, ecco, ma il morto importantissimo e televisto da tutti e emblematico al mille per cento. Non il danese Jensen (restiamo al ciclismo, ma il doping è dovunque, e casomai il ciclismo ha il "merito" di avere permesso sul suo corpaccio tanti interventi autoptici) fulminato in strada ai Giochi di Roma 1960, e neppure l'inglese Simpson bruciato a morte, fuori dal sole e dentro dalla simpamina, mentre scalava il Mont Ventoux nel Tour de France del 1967. Non esiste neppure un pudore internazionale, trasversale di fronte al doping, persino a quello più sfacciato. Quando i tedeschi e soprattutto le tedesche dell'est vincevano tantissimo in atletica e nuoto, si parlava del loro molto probabile doping con una sorta di invidia ammirata. Dopo che la caduta del muro di Berlino ha fatto sapere ciò che accadeva in quello sport di stato, di regime, nel senso che le cavie hanno parlato, specie quelle femmine, non c'è stato nessuno sdegno particolare, si è soltanto registrata la fine di un gioco dei furbi. Poco dopo, al primo grande avvento dello sport cinese, le voci su pozioni magiche di podiste e nuotatrici hanno divertito più che scandalizzato. Nel microcosmo nostrano Pantani è stato fatto passare più facilmente per un martire, un esploratore, un folletto dell'ematocrito alto, che per un colpevole di una precisa infrazione sportiva, oltre che di un certo comportamento morale. Davvero non è facile, specie per chi arriva adesso nel mondo dello sport, far crescere dentro di sè abbastanza convinzione per lottare contro il doping. Manca, ripetiamo, il morto importante, fortemente simbolico. Abbonda la fiducia nella possibilità della scienza di lavare anche organismi troppo sporcati. Si pensa a una quasi piena reversibilità di molti processi fisici, una volta interrotti perchè decaduta la loro finalità. Un qualche rigurgito umanista ha fermato per un po' le donne, dopo le paure per la fine della femminilità e lo stop alla maternità delle virago dopate, ma ormai ci sono prodotti che esentano da timori eccessivi. D'altrone negli Usa i ragazzi sondati hanno quasi tutti detto "sì" alla domanda: vi dopereste, se sapeste di non essere scoperti? E hanno detto in maggioranza "sì" alla domanda: se foste sicuri che un certo prodotto vi fa primeggiare, lo prendereste anche sapendolo pericolosissimo per la salute? Presto lo sport dovrà affrontare un tremendo elementare quesito, questo: contro il doping non c'è niente da fare, e dunque che si fa? E già adesso viene accettato nel mondo dello sport che un governo, un comitato olimpico, una federazione, un gruppo di tecnici o di medici, se in possesso di prodotti sicuri, nel senso che non vengono scoperti, non possa non decidere per il loro impiego. Tanto è vero che ormai si ipotizza la sola dicotomia salvifica: là anzi lassù - e che eticamente sia laggiù non importa - lo sport dvélite, delle massime prestazioni, della più alta telespettacolarizzazione, con tutti gli aiuti chimici a disposizione, e in attesa magari di altre armi scientifiche, come l'ingegneria genetica e i trapianti, prossime "frontiere": qui il nostro sport quotidiano, il giro dell'isolato o del giardino in scarpette e brachette, senza più nessun rapporto fra i due mondi. Il doping cavalca lo sport. Così è, se vi pare e anche se non vi pare. L'inglese Simpson morto nel 1967 mentre scalava il Mont Ventoux al Tour de France

Persone citate: Coppi, Dorando Pietri, Fausto Coppi, Jensen, Mont, Nino Defilippis, Pantani, Simpson

Luoghi citati: Amsterdam, Berlino, Inghilterra, Londra, Manhattan, New York, Olanda, Parigi, Roma, Usa