Putin copia Milosevic La guerra porta al potere di Barbara Spinelli

Putin copia Milosevic La guerra porta al potere Putin copia Milosevic La guerra porta al potere Barbara Spinelli Ni EL pieno della guerra caucasica, all'inizio di novembre, il premier annunciò che «il patriottismo, nel migliore senso della parola, deve costituire l'armatura della nostra nuova ideologia». Dieci anni di ritardo occidentale nella guerra dei Balcani hanno finito col secernere questo personaggio che costruisce un'intera carriera, sull'annientamento di Grozny e sulla liquidazione dei eoceni. Più sangue scorrerà, più la fortuna arriderà a Vladimir Putin. Dove scorrere ininterrotto almeno fino a giugno, perché lo sbiadito ma scaltro allievo del Kgb ne tragga profitto, e possa divenire successore di Eltsin e Presidente della Russia. Sfidare l'Ovest con l'arma dell'impassibilità, o della minaccia atomica ha dato le ali, al partito governativo. E anche qui è il fiuto, che spinga l'esito della gara elettorale, Una guerra di annientamento in Cecenia, un ultimatum lanciato alla popolazione civile di Grozny che ricorda l'assalto nazista di Varsavia, un accanimento anti-ceceno che trasgredisce ogni accordo precedente: tutto questo è vissuto dai russi come una sorta di rivincita contro l'America e l'Europa, contro le loro incostanti assicurazioni, contro le loro insolenti, imperiali iniziative. Iniziative dalle quali non sarebbe scaturito altro che umiliazione, che deminutio capitis, per la nazione orfana del duplice impero posseduto in passato: l'impero europeo smarrito nell'89, l'impero sovietico dissolto nel '91. Poi sopraggiunse la controffensiva della Nato in Kosovo, e qui avvenne una sorta di smottamento, nelle profondità dell'anima russa: una frana di emozioni, di disgusti ancestrali, di risentimenti fin qui trattenuti o dissimulati. D'improvviso crollò nei sondaggi ogni simpatia per l'Occidente e i suoi valori, anche tra i giovani che il giorno prima adoravano i miti e i simboli americani. D'improvviso la gente si riscopri slavofila, filoserba, ortodossa. E prese a parlare di anima russa, e la contrappose a quella europea con nuova stizza, nuovo orgoglio. Mon era più soltanto una élite che manipolava la cittadinanza passiva, apatica, come ai tempi del comunismo. La popolazione sembrava partecipare al passaggio dalla rivoluzione rossa alla rivoluzione slavofilo-nazionalista, con le sue xenofobie anticaucasiche, anticecene, e ormai anche anti-occidentali. Lo smottamento era per la verità cominciato prima, quando i capi occidentali decisero di riunificare l'Europa per decenni divisa, e di aprire la Nato ad alcune nazioni che ieri erano nell'imperium sovietico: Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria. E in prospettiva anche Romania, Bulgaria, Paesi baltici, con l'Ucraina che avrebbe acquisito uno statuto a parte, non di membro a pieno titolo. Già allora si preannunciava la frana, e non pochi democratici russi misero in guardia europei e americani. Ma lo smottamento si limitava a travolgere le élite, allontanandole via via dall'Ovest. Non trascinava ancora la Russia pro¬ fonda, come successe nell'ultimo anno della guerra di Milosevic nei Balcani. Ultimo anno che agli occhi della nazione apparve nelle vesti di primo ed unico anno: tanto enorme era stata la sua cecità-indifferenza alla decennale aggressione serba in ex Jugoslavia. Nella frana si esprimeva risentimento, contro la democrazia liberale che non aveva dato i frutti promessi. Seguiva il senso di rivincita, di una nazione che in passato si era sentita non tanto grande quanto temibile, e che adesso aveva l'impressione di essere trattata alla stregua di una nullità.di una quantità trascurabile. Il crack finanziario del '98 inasprì tali emozioni, accentuando la dipendenza russa da aiuti internazionali sempre più condizionati, severi. Sicché con il tem- po il nemico diveniva sempre più esteriore, e la coscienza dei doveri personali e collettivi diminuiva drasticamente. La popolazione si abituò a scaricare le proprie responsabilità su poteri esterni, o su capri espiatori: sull'America, sull'Europa, o sulla piuricentenaria stirpe ribelle di Grozny. Putin ha fiutato l'emergere impetuoso di simili istinti, li ha esacerbati, li ha cavalcati, ha accusato senza prova i ceceni di attentati mortiferi, e ha fondato una politica il cui perno esclusivo è la guerra di sterminio e l'odio anti-ceceno nell'insieme del Paese. Dopodiché, probabilmente, il Premier si1 presenterà' in vesti inattese, originali. Vesti di riformatore, se non addirittura di liberale: già da ora gli occidentali son pronti a elogiarlo, perché il peso dei comunisti nella Duma è stato ridotto. Già sembrano disposti ad aprire le porte a un futuro Presidente riformista che avrà le mani insanguinate di un genocidio, che garantisce l'ordine autoritario senza legge, e che promette di divenire un Pinochet russo. Che promuoverà il liberismo come i cinesi ma ignorerà - scrive l'Economist - come «democrazia e economia di mercato abbiano bisogno, per prosperare, di alcuni valori civici: l'onestà, l'eguaglianza davanti alla legge, e una certa quantità di compassione». In passato Putin è stato amico di Sobchak, il gorbacioviano sindaco di San Pietroburgo destituito per corruzione. Oggi si dichiara vicino a riformatori come Ciubais, Kirienko, perfino Gaidar, che non hanno resistito allo smottamento nazionalista e hanno lasciato solo il deputato Jawlinski, a denunciare la guerra Putin conosce a perfezione lo strumento della corruzione. Non si sa se sia un corrótto, ma sa adoperare corriittori e ricattati. Secondo il giornalista russo Dmitri Fourman, la famosa frase pronunciata agli esordi della guerra - «Daremo la caccia ai ceceni fino a scovarli nei cessi!» - appartiene al linguaggio di un Kgb trasformatosi in mafia. Così come mafioso è il suo piano di scardinare la presidenza legittima di Maskhadov a Grozny, e di sostituirla con un governo filo-moscovita. In apparenza Putin vuole l'ordine, si batte contro banditi e terroristi islamici. Tuttavia il capo provvisorio del governo fantoccio è un mafioso, Malik Saidullaev, detto anche «Re dplla Lotteria», ricattabile per il legame di amicizia che intrattiene con un certo Baraev, islamista wahabita che organizzò la presa di ostaggio e la decapitazione di tre inglesi e un australiano che lavoravano per le telecomunicazioni nel Paese caucasico. Nel governo provvisorio Putin ha inoltre nominato Bislan Gantamirov, ex sindaco di Grozny, condannato a sei anni di carcere per aver trafugato i soldi della ricostruzione della Cecenia dopo la guerra del '94-'96. Maskhadov lo aveva consegnato alla giustizia federale, che dopo un anno lo liberò. Tra i ministri prescelti c'è anche Adam Deniev, islamista wahabita, formatosi in Iraq, sospettato di aver commissionato l'assassinio di religiose della Croce Rossa. Il suo dossier fu consegnato da Maskhadov alla Croce Rossa di Ginevra e alla magistratura russa, ma la polizia non lo arrestò. Un esecutivo composto di semibanditi è destinato a regnare sui detriti di Grozny. L'Occidente che sta per perdere la Russia, alla fine del millennio, ha di fronte a sé una potenza che sogna ancora una volta di fare paura. La minaccia nucleare pronunciata a Pechino da Eltsin significa appunto questo: abbiamo l'atomica, dunque tutto ci è permesso. Dimenticate le regole della reciproca dissuasione nucleare, non resta che la sfida nichilista del massimo crimine. Sergej Kowaiiov, ex dissidente, avversario della prima e della seconda guerra di Grozny, ci ha detto a Mosca: «E' bastato che per' un attimo non aveste 'timore e mostraste un po' di coraggio, in Kosovo", e la forza tanto ostentata da Mosca si è in parte dileguata». E' la paura che rischia di allontanarci ancor più dalla grande e malata nazione, e di preparare la rovii.a sua, e la nostra. Il sangue deve scorrere almeno fino alle presidenziali di giugno perché succeda a Eltsin L'ex dissidente Kowaiiov: in Kosovo avete mostrato coraggio il bluff di Mosca è crollato