Pellegrino che vieni a Roma di Filippo Ceccarelli

Pellegrino che vieni a Roma Pellegrino che vieni a Roma Filippo Ceccarelli MA quale terzo millennio, per favore: Roma ne deve smaltire ancora altri due. Una ventina di secoli almeno, sempre che non si voglia cominciare il conteggio ab urbe condita (753 avanti Cristo). La tramontana luminosa di questo dicembre ha reso Roma di nuovo bellissima e invivibile. Dev'essere cosi dal neolitico, perciò perfino l'Anno Santo che incombe lascia un po' il tempo che trova. «Santo», del resto, sotto il dominio papalino veniva proclamato dalla plebe belliana anche il più sfrenato Carnevale. Quando, con la dovuta complicità di Dioniso, le luminarie posticce e i trionfi della carne, i botti per aria e le mandrie impazzite di bufali sciolti al galoppo per via del Corso interrompevano il «normale» codice di accattonaggi e preghiere. Giacché «a sto paese già tutto er busilli/ sta in nervive a lo scrocco e fa' orazzione». Vivere a sbafo (Roma ladrona) e implorare che non accada il peggio. Per cui figurati che emozione, il duemila, per un'entità schiacciata, stravolta e paralizzata dal suo stesso grandioso passato. Il peggio, oltre tutto, è già accaduto, e senza conseguenze troppo visibili, come è nella natura dell'ingorgo, dell'infarto, dell'implosione. Qualche mese fa, al culmine di uno sciopero dei tassinari, il leader della corporazione Carlo Bologna si fece fotografare nel mezzo di una spaventosa marmellata metallica di automobili vestito da centurione. Poco romana oggi, Roma era pochissimo italiana quando nel 1870 fu resa capitale: «capitale inventata - ha scritto Vittorio Gorresio - se mai un'altra ve ne fu». Poche ore dopo la breccia di Porta Pia, il cronista Edmondo De Amicis vide una lunga fila di soldati in ginocchio attorno all'aitar maggiore di San Pietro. Sentì un bersagliere monferrino che dopo aver dato un'occhiata alla basilica se ne uscì: «A j'è nen a dije; a l'è un bel travap. «Mamma mia» dicevano i soldati napoletani, al tempo stesso ammirati e sgomenti. «Madona! al ter ch'el domm de Milani» scappò di bocca a un artigliere lombardo. Eppure, per il giovane regno d'Italia, aver scelto Roma, e cioè un emblema che la trascendeva per intero proiettandola anche su un piano internazionale, se non universale, doveva rivelarsi un'amara beffa della storia. Al momento del trasloco del Re, si pensò di fargli attraversare il Foro romano e salire al Campidoglio per la Via Sacra: ma si riscontrarono difficoltà che erano sia pratiche che metaforiche. Pesava troppo questo passato di gloria perduta e rovine imponenti, di strade strette e tortuose, odore di grasso e di broccoli. I conquistatori piemontesi, o «buzzurri», ne rimasero suggestionati, ma anche sovrastati. Scrisse un altro giornalista piemontese, Eraldo Bareni di Mondovi, sul Compare Bonom, che la città era «piena 'd pere fruste, 'd muraje veje e 'd rotam antich». Quasi mai le antichità giovano al presente. Tanto lo intralciano e lo bloccano che tra le ragioni per cui gli italiani non possiedono simboli e identità nazionali c'è proprio Roma. Presto, sostiene Elias Canetti in Massa e potere, «si rivelò che non era possibile lasciare in vita senza pericolo una città come Roma. Gli edifici di massa dell'antichità sorgevano ancora intorno, vuoti; l'anfiteatro era una rovina molto ben conservata. Ci si poteva sentire in esso privi di diritti e ripudiati. La seconda Roma, invece, la Roma di San Pietro, aveva conservato a sufficienza la sua antica attrazione. La chiesa di Pietro si riempiva di pellegrini d'ogni parte del mondo. Ma questa seconda Roma non era certo atta a fungere da polo di discriminazione nazionale. Essa si era sempre rivolta indistintamente a tutti gli uomini, e la sua organizzazione risaliva a un tempo in cui le nazioni nel senso moderno non esistevano ancora». Ecco dunque che sempre si ritorna ai Cesari e ai Papi, al Colosseo e a San Pietro. Invano si sognò una terza Roma. a Teodoro Mommsen che faceva presente a Quintino Sella come nell'Urbe non si potesse stare senza un'idea universale e gli domandava quale sarebbe stata quella dell'Italia, Sella rispose: «La scienza, signore». e insomma: l'intuizione tecnologica c'era, ma non valeva per Roma. Quindi venne il fascismo e il saccheggio alla romanità imperiale fu intenso, e poi meritevole di contrappasso. «La storia dei popoli si misura a secoli - arrivò a leggersi sui manifesti alla fine degli anni trenta, dopo il breve ritorno dell'impero sui colli fatali - quella dell'Italia si misura a millenni». e dietro la sagoma del solito imperatore romano si intravedeva la capocciona di Mussolini. Fu il tempo appunto dei fasci, dei littori e dei littoriali; del passo romano e del saluto romano; della milizia e dei loro consoli, delle coorti e dei capi manipolo; dei ludi juveniles e dei «ludi cartacei», che poi erano le elezioni, La fantasia di Achille Starace attinse con voluttà alla storia romana. Vennero ribattezzate strade «via dell'Impero», costruiti archi di trionfo e tripodi di cartone alla stazione Ostiense. Ma il costume antico dei romani era troppo largo per il fascismo, «ed esso vi si agitava dentro con tale veemenza che lo ruppe tutto. I fori possono essere dissepolti, l'uno dopo l'altro: non si riempiono di romani. Il fascio suscita solo l'odio di coloro che sono accarezzati con le verghe. Nessuno va orgoglioso di minaccia o punizione» (Canetti). Fu anche il tempo delle «quadrate legioni», mandate sciaguratamente a morire lontanissime da casa, tra le sabbie roventi del deserto libico, nel fango appiccicoso dei Balcanio nel gelo in Iemale della Russia. Altro che impero. Tutto sommato, lo capirono i democristiani. Nell'immediato dopoguerra i comunisti si riunirono - anche con partigiani armati fino ai denti - alla Basilica di Massenzio. e poco più in là, 30tto il Colosseo, Pietro Nenni tenne il comizio dell'unificazione socialista. Alle Olimpiadi del 1960, Giulio Andreotti, prossimo presidente dell'Istituto di studi ciceroniani, il più romano e papalino di tutti gli uomini di una stagione di governi che durò almeno il doppio del fascismo, volle recitare la sua prolusione inaugurale in latino. Il passato, oltre tutto, si aggiorna. La commercializzazione del Giubileo, da questo punto di vista, fa già spavento. Ma anche la romanità pagana non scherza, non ha mai scherzato. C'è Parretti che, se i giudici gli lasciano un po'di quiete, e il finanziatore arabo Al Waleèd Bin Talal non fa scherzi, minàccia di costruire «Roma Vetus» nelle campagne dell'orvietano; mentre a Las Vegas c'è da tempo l'hotel «Caesar», con i croupiers in toga e le cameriere in tunichette tipo vestali. Da qualche parte, in Giappone, ci dovrebbe stare pure un qualche postribolo antico romano, con triclini e grappoli d'uva da lussuria... Insieme allo scetticismo, l'Imperiai trash sembra l'unica forma di auto-risarcimento che il gravoso passato dell'Urbe concede ai posteri. Ma per estremo paradosso anche la mascherata spettacolare, la rappresentazione di finti antichi romani in sandali e mantelli, ha già un passato, che naturalmente è anche un passato che in qualche occasione è insieme tragico e beffardo. «Sandaloni» si chiamavano in gergo cinematografaro i primi «Olio vadis?», «Nerone», «Messalina», «Fabiola», «Gli ultimi giorni di Pompei» del cinema muto. Era un genere di sicuro successo. Nel 1924 il produttore Ambrosio affidò a Gabriellino D'Annunzio, il figlio del Vate, e al tedesco Georg Jacobs, l'ennesimo «Quo vadis?». .Tenarissimo film, girato in gran parte negli studi della Saf a - Pai at i no (dove ora c'è Canale 5). Ebbene, raccontano le cronache che durante la lavorazione, nella scena classica dei martiri mangiati dai leoni, una delle 27 fiere noleggiate dal circo del cavalier Alfredo Schneider, per la precisione una leonessa dal nome «Europa», azzannò ed effettivamente uccise la comparsa Palombi Augusto. Scapparono tutti: il produttore, D'Annunzio, Jacobs e i domatori. A fronteggiare la legge e l'ira del sindacato comparse restò solo la cognata del cavalier Schneider. Dice una canzone, certamente adattabile al Giubileo: «Pellegrino che venghi a Roma da lontano/ aricordete che sto' popolo è romano»... Carlo Bologna, leader della rivolta dei tassisti che paralizzò Roma il novembre scorso, travestito da antico romano