E la musica s'incontrò con la tecnologia di Sandro Cappelletto

E la musica s'incontrò con la tecnologia E la musica s'incontrò con la tecnologia Sandro Cappelletto IL nostro desiderio di musica è la sicura garanzia della sua sopravvivenza. L'arte più antica, nata assieme alla voce dell'uomo, sta bene, soffre semmai di ipertrofia: uno sfrenato bisogno di consumo - serva a produrre emozioni o semplicemente a colmare dei vuoti - induce un'offerta che non conosce crisi. TI Novecento ha insegnato alla musica nuovi linguaggi, alfabeti e sintassi, le ha consentito di creare nuovi strumenti, l'ha fatta incontrare con la tecnologia. La semplice domanda «dal vivo o riprodotta?» era impensabile cent'anni fa. Viviamo nell'era più densa di suoni della storia dell'umanità. Il pubblico è stato provocato, ha reagito con violenza e stupore a musiche che negavano i principi stessi della buona educazione formale: abituato alla potenza sonora dell'età romantica, ha visto dissolversi quelle armate, trasformate in sottilissime rarefazioni, in pulviscoli di suono; certo di incontrare all'inizio e alla fine di un brano una serie di accordi che funzionavano come precisi segnali narrativi, ha smarrito queste boe luminose in mezzo al maro dell'ascolto. L'orecchio ha dovuto munirsi di altre bussole. L'aumentata velocità delle informazioni ha consentito ai compositori di conoscere e di misurarsi con civiltà musicali prima ignote: alla fine del Novecento, constatiamo che anche in questo ambito l'Europa ha perduto il proprio primato, che la reciproca frequentazione di stili e tradizioni è un patrimonio ormai acquisito. Il colonialismo è morto anche sul pentagramma. Clie cosa determina, oggi, l'attributo di colto o di popolare conferito ad un'opera d'arte? Il consenso del pubblico e del mercato, la quantità di cliccate su un sito web, l'intuizione dei critici, degli editori, dei direttori artistici? Il grado di complessità e, per opposto, la semplicità più sfacciata e ripetitiva? Durante il'Novecento, molte vie si sono tentate, percorse, abbandonate. Alcuni momenti sono stati «realmente grandi» e rimangono tuttora cosi luminosi che fa piacere ricordarli. PARIGI, 20 maggio 1913 - «Il rito della primavera», cu Igor Stravinskij (Oranienbaum (Russia)1882- New York 1971). Un sogno è all'origine di questi «Quadri della Russia pagana» che indignano il pubblico parigino del tempo provocando un memorabile scandalo e che oggi consideriamo il primo grido del Novecento musicale;. Il russo Stravinskij «vede» un rito pagano: dei vecchi saggi stanno seduti in cercliio attorno od una giovano donna che danza uno a sfinirsi, a morire. L'Europa civilizzata e razionalista riscopre la potenza di un rito arcaico, dei suoi ritmi dionisiaci; per trasformare questa idea in musica, il compositore sembra voler sollevare la crosta terrestre, dissotterra sonorità telluriche. Le pulsazioni si sovrappongono, le tonalità si susseguono una nell'altra, gli impasti sonori so- no di sconvolgente novità. Questa «primavera» della musica nasce come spettacolo coreografico, creato dai «Ballets russes» di Vaslav Nijinskij e diretto dal podio da Pierre Monteux. La «sceneggiatura» viene scritta da Stravinskij assieme al pittore e archeologo Nicolas Roerich, esperto di ritualità della civiltà slava. Partitura inimitabile e mai imitata, madre di tutta la musica che consideriamo moderna. BERLINO, 14 dicembre 1925 «Wozzeck», di Alban Berg (Vienna, 1885-1935). Un dramma teatrale ottocentesco di Georg Bochner rivive nei tre atti di un'opera rivoluzionaria o classica; la violenza dell'espressionismo - movimento letterario, figurativo e musicale che segna i primi decenni del secolo - viene compresa e organizzata in un contenitore forte, costruito secondo i ciriteri formali consegnati dalla tradizione. 'Putto è riconoscibile, eppure tutto suona nuovo. La voce non canta soltanto: parla e grida, sussurra e invoca. Si fa strumento di verità senza verismo, e nei momenti lirici commuove di vera emozione. Una formidabile coerenza drammatica, ima complessità musicale tale da richiedere al direttore Erich Kleiber oltre cento prove. Un disperato proletario che per arrotondare vende il proprio corpo agli esperimenti della scienza, sua moglie e il denaro che le offre il Tamburmaggiorc, il loro bambino che saltella via - «hop, hop - hop, hop» quando gli dicono che sua madre è morta. Una storia di vita diventata un simbolo. PARIGI, 14 gennaio 1932 - «Concerto in sol per pianoforte e orchestra», di Maurice Ravel (Ciboure, Pirenei-Atlantici, 1875- Parigi 1937). Un soggiorno negli Stati Uniti consente a Ravel di conoscere la vitalità della musica jazz, dei suoi ritmi e delle sue sonorità, figli della vita acceleratissima delle metropoli americane, come poteva allora scoprirle un compositore europeo. Tornato a Parigi, crea questo «divertisse ment»; una forma e un'orchestra classica - pensate come omaggio al prediletto Mozart - accolgono al loro intemo una scrittura brillante, estrosa, scandita, soprattutto nel primo movimento, da un frequente utilizzo della sincope, risorsa tipica del jazz, e da una citazione del flamenco, il finale è una felice corsa al precipizio, come un motore al massimo dei giri. La musica racconta la nuova velocità della vita, con sovrano controllo delle risorse impiegate. Assimila quanto le è estraneo, il jazz, e lo fa proprio. LONDRA,22maggio 1950 «Ultimi quattro lièder», di Richard Strauss (Monaco di Baviera, 1864-1949). L'autore di «Così parlò Zarathustra», «Sabine», «Elettra», «Il cavaliere della rosa», il massimo autore di teatro musicale del Novecento, è scomparso da pochi mesi quando Wilhelm Furtwàèngler e 11 soprano Kirsten Flagstad eseguono questo suo canto di commiato. Tre poesie di Hermann Hesse, «Primavera», «Settembre», «Andando a doni i i re» e una di Joseph von Eichendorff, «Al tramonto»: «0 pace vasta e silenziosa/ profonda pace del tramonto/ Siamo così stanchi del cammino - / é così forse che si muore?», dicono gli ultimi versi. La voce e l'orchestra diventano essi stessi quel tramonto, quella stanchezza, accompagnano quel cammino, che procede lento e sempre più lontano. Con Strauss, con questi lieder così sereni nella loro malinconia, capaci una volta ancora, romanticamente, di immaginare l'uomo fratello della natura, svanisce l'universo tonale: il compositore tedesco lo ha spinto fino ai confini estremi della sua galassia, svelandone una volta di più le meraviglie possibili. Dòpo questo sigillo, diventerà impossibile, per ogni vero creatore, percorrere ancora quel sentiero. AMBURGO, 12 marzo 1954 «Mose e Aronne», di Arnold Schoenberg (Vienna 1874 - Los Angeles 1951). i Opera incompiuta, iniziata, abbandonata, ripresa, lasciata senza musica all'inizio del terzo atto, quando Mose, al quale la balbuzie impedisce di cantare, cioè di comunicare, rimprovera il fratello Aronne di aver usato per proprio tornaconto la parola divina. Una parola misteriosa, da interpretare. 11 musicista che ha offerto alla composizione contemporanea nuove regole linguistiche, mettendo a punto il metodo di scrittura dodecafonico - basato sul postulato dell'assoluta eguaglianza tra i dodici suoni della scala (le sette note e le cinque alterazioni: diesis e bemolle) - ribadisce con questo estremo ca poìa voro la propria attitudine metafisica. Accusato di aridità creativa, Schoenberg si rivela come uno dei grandi mistici del secolo, artista che non ha mai.smesso di inseguire l'assoluto, anche nei momenti più tragici della propria esistenza, negli anni della fuga deU'Europa e di un soggiorno americano vissuto come un esilio. Nel settembre del 1914, aveva iniziato a scrivere un «Diario delle nuvole di guerra»: «Molte persone avranno cercato, come me oggi, di leggere nel cielo gli eventi della guerra, poiché finalmente ritoma la fede nelle potenze superiori e anche in Dio». PARIGI, 2 dicembre 1954 - «Deserti», di Edgar Varese (Parigi 1883New York 1965). «Alla sedia elettrica», si grida dal pubblico contro il compositore, che ad un'orchestra sinfonica ha aggiunto dei «suoni» registrati nelle fabbriche, nelle navi, creati in studio grazie ai primi strumenti capaci di produrre sonorità artificiali. «1 deserti per me non significano soltanto i deserti fisici della sabbia, del mare, delle montagne, della neve, dello spazio estemo, delle strade deserte nelle città, che evocano la sterilità, resistenza fuori dal tempo - ma anche questo lontano spazio interiore che nessun telescopio può raggiungere, dove l'uomo è solo in un mondo di mistero e di solitudine essenziale». Opera spettacolare: quarantasei strumenti a percussione, provenienti da tutte le civiltà musicali del mondo, servono a Varese per ricreare una dimensione sonora infranta, pura come l'orizzonte di un deserto, come il suo silenzio al di là del tempo: «Battere il tempo del silenzio» è l'indicazione apposta in partitura all'ultima battuta. La musica pretende di farsi spa ;do e volume/ di avere rilievi, spessori, luci come le possiedono le creazioni della natura. Varese: uno scienziato, un visionario, padre di tutte le avanguardie del secondo dopoguerra. VENEZIA, 25 settembre 1984 «Prometeo, tragedia dell'ascolto», di Luigi Nono (Venezia, 1924-1990). Una chiesa sconsacrata a due passi da San Marco; una struttura lignea disegnata da Renzo Pianò, musicisti e cantanti disposti e dispersi,, come argonauti, all'interno di questa nave del suono che qualcuno chiama «arca». Lo studio di Friburgo incaricato di moltiplicare, sottrarre, smarrire le voci e gli strumenti grazie alle possibilità del live-electronics. Un racconto che procede per «àsole», che nega la consueta mappa della i ìami ti vita. Voci che si inerpicano verso altezze purissime e stazionano lì in alto, immobili. Pause, silenzi, impercettibili presenze sonore, repentini cataclismi. La musica ha bisogno di un nuovo Prometeo, che rubi il fuoco della creatività, che ricrei il mistero e io stupore dell'ascolto, sottraendolo all'ovvietà onnivora e mai sazia del consumo. Accolto con sgomento, questo itinerario mistico e tecnologico del compositore veneziano si è, nelle successive esecuzioni mternazionali, imposto con l'autorità di un capolavoro. g1 . ^ Igor Stravinskij nacque a Oranienbaum nel 1882 e morì a New York nel 1971