Cucina, la rivoluzione ha le stellette di Edoardo Raspelli

Cucina, la rivoluzione ha le stellette Cucina, la rivoluzione ha le stellette Edoardo Raspelli IL linguaggio sarebbe stato quello del cronista: duro, crudo, beffardo ma efficace. Me ne stavo in redazione, al secondo piano di via Solferino 28, a leggere tranquillamente la copia fresca fresca del «Corriere d'Informazione», l'edizione del pomeriggio del «Corriere della Sera». Erano gli anni di piombo, era il settembre 1975: ero entrato lì, in cronaca nera, dopo aver cominciato a scrivere liceale sul Corricrone; ero stato il primo giornalista, quel 17 maggio 1972, ad arrivare in via Cherubini, dove avevano ammazzato il commissario Luigi Calabresi; mi ero occupato di Feltrinelli, avevo seguito le indagini su Simonetta Ferrera, massacrata con 33 coltellate in un bagno della Cattolica di Milano, proprio il mio primo giorno di lavoro. Mario Perazzi, il vicecapo cronista, entrò in redazione e mi disse: «Raspelli c'è un padulo». Gli chiesi che cosa volesse dire: «E1 un uccello che vola nel...». Così, con una presa in giro, il giornalismo italiano perse un giovane cronista di belle speranze ed acquistò un critico gastronomico, un cronista della gastronomia. Il direttore, Cesare Lanza, aveva deciso: «Vai a mangiare fuori, ti guardi attorno, paghi il conto, che ti rimborsiamo noi, e poi racconti quello che ti è successo, il servizio, come hai mangiato». Nella mia famiglia c'erano stati albergatori e risi oratori: mia zia aveva aperto un Relais & Chàteaux ante littcram, si era sposata il suo chef de rang con un passato nei più grandi alberghi d'Italia e del mondo ed io, bambino, avrei voluto intraprendere la carriera alberghiera... Ma nel giornalismo, tra un assassinio ed ima strage, mi ero fino ad allora limitato a recensire in modo acrilico i promossi ed i bocciati dell'unica guida esistente, 1» Michel in. Con me, con la mia obbedienza, tra gli sberleffi dei miei colleghi («un futuro grande cronista mancato»), inventai, obbligato, anche la critica gastronomica negativa; già, perché Cesare Lanza, nauseato delie guide che parlavano solo di un'Italia piacevole, mi ordinò di scrivere solo e sempre in difesa del consumatore. Di qui, la mia rubrica settimanale, nel 1975, dedicata al «peggior ristorante della settimana». Oh, se il consumatore italiano aveva bisogno di essere difeso, nel cuore degli anni di piombo. Guanto era scuro il presente gastronomico dell'Italia del 1975, giusto un quarto di secolo fa. A Milano, a Brera, al Soldato d'Italia, famoso e frequentato prima che Camilla Cedema ci vedesse scorrazzare un nero animaletto, il patron proponeva le pan ze alia Gino. Il piemontese Serafino Arrigotti, in via Bramante, offriva la polenta dcll'Aga Khan. 11 Rigolo (la super mensa dei giornalisti del «Corriere»), le lasagnette al curry. La Tavernetta da Elio, in via Fatebenefratelli, di fronte alla questura, suggeriva ad Indro Montanelli e Gaetano Afeltra corde di chitarra e lasagnette verdi. Nella capitale del lavoro e dell'economia, il Cenacolo di via Archimede puntava tutto sui raviolacci alla ghiotlona e sul risotto alla Carlotta. Il Barbarossa di via Cerva metteva nel menù il filetto alla Scrogofon (I?), il Savini di Angelo Pozzi un meno indecifrabile ma sempre pomposo filetto alla Woronoff. 1 ristoranti sui treni offrivano solo Soave e Bardolino, di Bolla e di Bertani; quelli sulla terraferma, camerieri che sgusciavano tra i tavoli a castello con i tovaglioli sotto le ascelle e, pensando di non farsi sentire, lanciavano frasi del tipo:«Toni, dov'è la frutta marcia per la macedonia?». Nei miei pezzi sul ristorante peggiore della settimana, contraddistinti da un «faccino nero» di disgusto, imperversava la beceraggine del servizio e la appros¬ simativa fantasia della cucina: davanti al cliente, al Savini il cameriere si puliva le unghie con il tronchesine, all'Amelia di Mestre con lo stuzzicadenti; al Biffi Scala il cameriere fermava lo spumante che eruttava caldo dalla bottiglia appena aperta mettendoci sopra il palmo della mano, il maitre del già citato Serafino non aveva altro che le dita per far scivolare sul risotto mio e della mia ex fidanzata, oggi mia moglie, i rimasugli del tartufo rappreso sultaglia tartufi e sugli stessi polpastrelli, A Casale Monferrato, in mezzo a due piatti di pesce, mi venivano cortesemente ma orribilmente servite, come intermezzo, delle fragole condite, contemporaneamente, di aceto zucchero sale e melassa. A Berceto (Parma) trovavo due mosche morte in mezzo ai porcini sott'olio e quattro capelli negli agnolotti. Nel maggio del 1976 la Michel in non assegna ancora le Tre Stelle (ci mancherebbe altro) ma con Due Stelle premia dieci ristoranti: Fini a Modena, Cantarelli a Saninosele di Busseto, Giannino a Milano, Pesce d'Oro a San Remo, Gatto Nero a Torino, Antico Martini ed Harry's Bar a Venezia, 12 Apostoli a Verona, Sabatini a Firenze, Charleston a Palermo. Guardate oggi: a parte l'Harry's Bar (che mantiene una sacrosanta stelletta) e il Fini (anch'esso, incredibilmente, con una ancora oggi), gli altri sono chiusi, scomparsi o caduti nel dimenticatoio, nel gastro oblio. Il 6 luglio del 1976 scrivevo sul «Corriere d'Informazione»: «Mai mangiato così bene in vita mia» (ed era vero). Si trattava della recensione di un ristorante emergente, il Castello di Cozzo Lomellina, la prima sede di Mondo X creata da Frate Eligio. Quella frase era sincera, ma volete sentire i piatti? Cocktail di champignon, insalata di wurstel in un melone scavato, risotto Dami (cipolle funghi porcini wurstel)! Nel 1976 si poteva ancora andare nei negozi italiani, comperare decine di bottiglie di vini, bianchi e rossi, tranquilli e spumanti, farli assaggiare anonimi a una commissione tecnica e compilare, con il loro aiuto, sul mio giornale, la nutrita Schif Parade dei vini d'Italia. Negli Usa, a Nuova York, il top della cucina italiana era Alpi, decorato dai lumini accesi davanti alle immagini sacre, collocate accanto ai fiaschi di Chianti dal collo alla Modigliani. Da Giambelli, in compenso, si versava il ghiaccio con le mani nel bicchiere mentre i camerieri giravano con il tovagliolo sotto le ascelle. Nel 1979, nel mio viaggio di nozze, la polvere contraddistingueva bellamente in cantina le bottiglie annose del Pinocchio di Borgomanero mentre il caviale ed il dolce Monte Bianco erano le cose migliori che si potevano mangiare, in luglio, all'Emiliano di Stress: due ristoranti non ancora diventati grandi. In questa situazione, ecco il genio di un quarantasettenne, nato a Milano il 19 marzo del 1930, Gualtiero Marchesi, che porta dalla Francia, in un gelido sotterraneo di via Bonvesin de la Riva, la rivoluzione della Nuova Cucina: materia prima di grandissima freschezza, cotture dolci e brevi, cucina a vapore, fantasia degli accostamenti, ricerca cromatica. Nello stesso anno a Piacenza arriva all'Antica Osteria del Teatro il genio di Georges Cogny, a Milano apre la Scaletta di Pina Bellini, a Cassinetta di Lugagnano l'Antica Osteria del Ponte con Ezio Santin che butta alle ortiche i mille lavori di prima, dal parrucchiere al torrefattole di caffè. Ad Imola, al San Domenico, si comincia, per la prima volta nella storia italiana, su suggerimento di un giovane panettiere, Rocco Lettieri, a fare il pane in casa. Un poco di attesa e poi Firenze apre l'Enoteca Pinchiorri. E' la svolta epocale, fatta di insalata Alma (rivoluzionari fegatini di pollo con foglie croccanti di spinaci) ed anelli di Filippo, cui seguiranno, negli anni, il raviolo aperto ed il risotto alla foglia d'oro, a Milano, e filetto di orata con fonduta di arancia e limone a Cassinetta diLugagnano. Nel dicembre 1978 esce in Italia, con il coordinamento di un giovane che si è fatto le ossa con le Guide Bolaffi, Giorgio Lindo, la prima edizione della «Guida ai Ristoranti d'Italia» dell'Espresso. Sotto l'esempio di Gault & Millau, arriva una Guida. Come una qualunque altra critica, come nel cinema, nella televisione, nella danza o nel calcio, si recensisce tutto: se il ristorante è famoso e costoso lo si prova e si raccontano, anche, le cose che non vanno. Gli autori sono un numero sparuto coordinati dal sottoscritto e da Federico Umberto d'Amato, affiancati al duo lrancese. E' la fine della cucina della mamma e della panna: ai vertici, accanto alle tradizioni di Cantarelli di Samboseto di Busseto e di Guido di Costigliole d'Asti, ecco la regale classicità del San Domenico di Imola e la fantasia4 deus Locanda di, Angelo Paracucchi ad Ameglia (La Spezia), di Gualtiero Marchesi; i 5 big escono tutti con un buonb'fttó nrofó$$3pjl 17/20. : La Nouvelle Cuisine svecchia negli Anni Ottanta ia cucina e la ristorazione italiana, introduce la piccola pasticceria ed il pane fatto in casa, dà significato alla spesa del giorno fatta ai massimi livelli di qualità, comincia a mandare nell'oblio i ristorantoni dei banchetti del sabato e della domenica. E' un lampo, anche come durata: incompresa dal, poco preparato pubblico italiano, beffeggiata da un giornalismo incompetente e gastronomicamente reazionario (il celebre, unico piseliino nel piatto di Marchesi, da provocazione scherzosa viene preso per simbolo di quantità ideale di porzione), viene assassinata anche da cuochi e ristoratori, dai copiatori e dai copiatori dei copiatori. Nella primavera del 1983, quasi 17 anni fa, su «Gente Motori», un colonnino ed un voto prudente, 15/20, scopre uno sconosciuto cuoco di Baschi, Gianfranco Vissani, che cucina da Dio in un ristorantone sperduto dalle parti di Orvieto. Fuori, sembra un ranch, dentro è un gabbiotto cieco ed eccessivo. Esalto in quel mio primo pezzo i cannoli di scampi in crema di piselli, mdimenticabile preludio'ad una cucina di un artista tutto genio e sregolatezza. Vissani è il ponte tra il Novecento ed il Duemila. Vissani è il tramite tra due pezzi di storia dell'Italia a tavola.