A Mosca la battaglia di Grozny divide le coscienze di Barbara Spinelli

A Mosca la battaglia di Grozny divide le coscienze L'APPELLO DEGLI. INTELLETTUALI PER IL CAUCASO A Mosca la battaglia di Grozny divide le coscienze E i ceceni diventano un capro espiatorio, come gli ebrei per Hitler segue dalla prima Barbara Spinelli MOSCA ■ I. campione impersona la for- I za, il muscolo delle vittorie. E' ■ quello che piace agli ebbri della nazione. Ogni tanto lo si può individuare sui manifesti: nelle vesti dell'orso russo che strangola un lupo dalla brutta faccia. Faccia esecrata, da liquidarti, fi lupo è il simbolo della Cecenia. Andare in Russia mentre cadono bombe su Grozny e gli abitanti civili della capitale cecena tremano di freddo e panico, fa pensare agli ebrei, nei primi anni del nazismo o nel ghetto di Varsavia. Ecco un popolo trasformato in capro espiatorio dell'immane sfacelo russo, ecco il nemico sul quale «possono esser canalizzati gli odi, i rancori di una nazione che per un terzo - 51 milioni di uomini - vive oggi al di sotto della soglia della povertà». E' quello che scrive Elena Bonner, vedova del dissidente Andrej Sacharov di cui si è celebrato, il 14 dicembre, il decimo anniversario della morte. Celebrazioni che danno le vertigini. Proprio lui, che alla vigilia della morte preparava paragrafi di una costituzione aperta all'autodeterminazione dei popoli: proprio lui, ricordato dalla sposa, dagli amici leali, ma omaggiato anche da chi sfacciatamente oggi lo usa, ne fa scempio. Da Eltsin, che alla televisione assicura che mai le lezioni di Sacharov saranno scordate. Da Putin addirittura, che va a inchinarsi davanti alla sua tomba, inseguito da codazzi di cameramen. «Per l'amministrazione presidenziale, per il governo, per i politici della Duma spiega Bonner - la guerra di Cecenia deve risuscitare il fervore patriottico, e sviare l'attenzione dell'opinione pubblica dalla corruzione e dagli scandali finanziari». II ceceno e l'ideale popolo-nemi¬ co. Per più di duecento anni si è rivoltato contro il potere prima degli zar, poi dell'Urss che sotto Stalin lo strappò tutto intero dalle sue terre, lo deportò, lo massacrò a migliaia, lo relegò nei campi. Durante il recente viaggio degli intellettuali francesi a Mosca, il filosofo Glucksmann si è rivolto così ai russi riuniti nella Fondazione Sacharov: «Solzenicyn stesso, che oggi approva l'assalto a Grozny, narra nella terza parte dell'Arcipelago come i soli a resistere indomiti al terrore fossero proprio loro, i prigionieri-zefc ceceni. Ci sono momenti in cui la guerra odierna sembra la rivincita del Gulag contro chi per tutta la vita si oppose ai Gulag». La guerra non imperversa infatti solo nel Caucaso. Ha luogo feroce, razzista - in varie città della Russia. L'ex dissidente Kowaliov, che con gli intellettuali francesi abbiamo incontrato a Mosca, paragona la loro condizione a quella degli ebrei, agli inizi del regime nazional-socialista. «Sono costretti a procurarsi continui permessi di soggiorno, come ai tempi sovietici - ci riferisce -. Sono cacciati dalle città. In seguito a un decreto del 21 settembre non ottengono più il passaporto per l'estero: sono intrappolati in Russia. Europei e occidentali vengono invitati a non concedere visti. Sono ogni giorno trascinati alla prefettura, e accusati di contrabbando di droga, di armi: naturalmente droga e proiettili sono infilati loro nelle tasche da agenti, in maniera surrettizia. Almeno 700 ceceni sono in carcere per simili montature, compreso Ù rappresentante a Mosca di Aslan Maskhadov, Presidente della Cecenia». Kowaliov è inquieto, parla di tacito colpo di Stato, non esita a descrivere la «guerra cannibalica» nel Caucaso del Nord, i pogrom anticeceni in alcune citta, e narra l'identica storia che su La Stampa ha drammaticamente raccontatola nostra corrispondente, Anna Zafesova: la storia di come i ceceni atterriti si aggirino per Mosca, le tasche dei pantaloni e delle giacche cucite, per non finire d'un tratto in galera. L'ebbrezza slavofilo-guerriera è sì diffusa nella classe politica (non rimane che Jawlinski ad opporsi) che sembra esser tornati negli anni dei dissidenti. Questi ultimi sono pochi, ormai anziani. Restano Sergej Kowaliov ed Elena Bonner soprattutto, la più decisa e cristallina. I giovani che si battono per i diritti dell'uomo e la non discriminazione dei ceceni sono più prudenti, più influenzabili dall'aria del tempo - nazionalista - che regna in Russia: lo si osserva all'associazione Memorial, sorta all'epoca di Gorbaciov per custodire la memoria dei prigionieri dei Gulag, oggi dedita alla coraggiosa difesa dei diritti civili, come anche alla Fondazione Sacharov. Ci si divide sull'autodeterminazione cecena, e dunque più sottilmente sulla vastità del crimine contro l'umanità perpetrato dalle truppe russe. Ci si divide sull'opportunità di concedere l'indipendenza a una nazione - la Cecenia - che dalla fine della prima guerra cecena nel '96 non avrebbe dato prova di democrazia, e che nonostante gli sforzi di Maskhadov si farebbe influenzare dall'integralismo musulmano. E' proprio su questo punto che Elena Bonner è inflessibile, nella sua lettera di rottura con i dirigenti di Memorial datata 10 dicembre: «Naturalmente io sono d'accordo con voi sulla necessità di difendere le regioni adiacenti alla Russia, come anche sulla necessità di difendere la Russia intera. Ma non a costo di una nuova distruzione di tutta la Cecenia, e non a costo di un genocidio. Né sono d'accordo con la tendenza a metter sullo stesso piano il carnefice e la vittima (anche una vittima imbestialita). E sono sicura che la Russia sia colpevole per il 50 per cento e forse anche di più, per il fatto che la Cecenia sia divenuta un Paese terribile». E' quello che ha detto anche lo scrittore Bernard-Henri Lévy, in una tavola rotonda organizzata con gli intellettuali francesi alla sede dell'Itar Tass a Mosca, indirizzandosi al generale Manilov, vicecapo di stato maggiore, presente in sala: «Siete voi che state creando il terrorismo in Cecenia, ed è una legge della storia, che la guerra suscita il terrore. Non è a Grozny che vanno cercati i banditi, ma a Mosca. Il terrorismo è nelle vostre azioni, nelle vostre parole, nelle vostre minacce nucleari». Smossi forse un poco da questi attacchi, alcuni rari intellettuali russi hanno cominciato a criticare la Rivoluzione Nazionale di Putin, alla tavola rotonda. Salambek Maigov, ex collaboratore di Eltsin, auspica rapidi negoziati con Maskhadov, legittimo Presidente della Cecenia, e critica «l'oscuro atteggiamento coloniale» di Mosca. Assieme a Maigov, lo scrittore Pristawkin mette in guardia contro «l'odio inestinguibile, che la guerra susciterà nei ceceni e nelle regioni musulmane per generazioni e generazioni». E protesta contro l'immagine criminalizzata, che i russi hanno delle popolazioni caucasiche. «Questa guerra sfocerà in guerriglia partigiana e non potremo mai vincerla», hanno aggiunto Emil Pain, ex consigliere di Eltsin per le nazionalità, e ancora una volta Maigov. Kowaliov ci aveva detto cose somiglianti: «Se il conflitto sfocia in guerra partigiana, i russi non potranno che risolverla attraverso la soluzione finale e il genocidio». Ma paradossalmente, l'autentica guerra russa non avviene nel Caucaso. Il Caucaso è un pretesto, intessuto di orrore. I ceceni sono, appunto, un capro espiatorio. La guerra piaga le menti di una nazione e di una classe dirigente che non si sono ancora riprese da quella che hanno ravvisato come la più terribile, la più umiliante delle sconfitte: la perdita successiva di due imperi. Il primo, di più recente acquisizione, è quello smarrito in Europa centro-orientale nell'89. Il secondo, antico e determinante, svanì nel'91 quando l'Unione Sovietica formalmente fu sciolta. Quella data resta nei ricordi come un taglio aperto, tuttora inciso nella carne. Come un'amputazione intollerabile, e non come la memoria di rinascita da un'epoca dura, nera, di patimenti, di disonore nazionale. Non come l'occasione per la Russia di imitare Giappone e Germania, e di ricostruirsi come nazione che aveva vinto i propri dèmoni totalitari, e che si avviava a divenire uno Stato provvisto di una costituzione libera, istituzionalmente stabile, progressivamente democratica, possibilmente federale essendo nazione multietnica. Convinta di aver perduto una guerra e non di aver strappato una vittoria su se stessa, la classe dirigente moscovita percepì tutto quel che accadde dopo - e per esser precisi : la politica occidentale negli Anni Novanta - come una strategia tentacolare profondamente e pregiudizialmente antirussa. Ogni cosa venne sentita in tal nwdo: l'allargamento della Nato, l'allargamento dell'Unione Europea, e per concludere la politica euro-americana nei Balcani, con la decisione finale di arrestare militarmente, nel '99, le operazioni serbe di deportazioni e di stermini etnici in Kosovo. Tutte queste iniziative vennero passionalmente interpretate come antirusse, in primis: cosa che nell'essenza non erano. Furono piuttosto il tentativo maldestro, tardivo, timido, di creare nel continente a lungo diviso una zona comune - una zona europea riunificata - dove valessero analoghe regole di civiltà, e dove fossero banditi comportamenti disumani e di inciviltà. Avrebbe dovuto essere - vorrebbe essere - uno spazio che includa anche la Russia, che per cultura e storia è parte del continente Europa. Ma non è questo senso di comunanza che vige a Mosca, da quel che si può constare di questi tempi. Altri sentimenti occupano i pensieri - soprattutto dopo la guerra Nato in Kosovo - di estraneità intensa. Catacombale, prevale il sentimento di avere di fronte a sé nazioni incoerenti, futili, provocatrici, e opinioni congenitamente ostili, avversarie, aliene all'immensa solitaria Anima Russa. La Russia che dalla Rivoluzione Rossa è passata alla Rivoluzione Nazionale non sembra più pensare in termini di dialettica ma piuttosto di genetica. Ci sono geni nell'uomo ceceno, che sono incompatibili con il russo e che vanno liquidati. Ci devono essere geni malevoli nei francesi, che per vie ereditarie li induce all'animosità e perfino all'odio antirusso. Per esempio questi intellettuali aggressivi venuti da Parigi: Glucksmann, Lévy, e altri: «Magari ci attaccano con tanta emozione perché i francesi ancora non hanno accettato la sconfitta di Napoleone in Russia», ha azzardato, serio, un partecipante alla tavola rotonda della Tass. Strane reminiscenze ricorrono nei russi che abbiamo incontrato in questi giorni. Reminiscenze di battaglie ininterrotte: come se un tempo unico condensasse i secoli, interamente pervaso da ostilità anti-russe. Se queste sono le ebbrezze, c'è da temere molto, per il bug ceceno che Romain Goupil, regista presente nella delegazione francese a Mosca, vede incombere come l'orrore ultimo del 2000. C'è da temere perché la battaglia ha luogo a Grozny, ma la guerra è spirituale e si combatte nelle menti di una Russia non guarita dalla sindrome della sconfitta, del risentimento, e della memoria deviata. La guerra imperversa non solo nel Caucaso Ha luogo, feroce e razzista, in varie città con umilianti vessazioni e violenze