KADARE' l'armata dalla coscienza sporca

KADARE' l'armata dalla coscienza sporca Lo scrittore accusa: quante menzogne sul Kosovo KADARE' l'armata dalla coscienza sporca Ismait Kadaré CL 23 novembre è caduta la prima neve in Kosovo. In base alle credenze tradizionali dei popoli della penisola balcanica, è un segnale di buon augurio e reca la pace fra gli uomini. Ma quest'anno le cose non stanno proprio in questi termini. I senzatetto sono particolarmente numerosi, e patiscono il freddo. La neve, un tempo attesa con gioia, rabbuia i volti. La stampa mondiale evoca con sempre maggior frequenza le rappresaglie albanesi contro i Serbi. Quando si tratta di crimini contro l'umanità, di popoli che vicendevolmente fanno scorrere il sangue, di ritorsione o di vendetta accompagnate da assassinii, bisogna dar prova di serietà fino in fondo. Soprattutto quando ci si trova dinnanzi a popolazioni appena uscite dall'orrore. Assistiamo, in Kosovo, a rappresaglie da parte di albanesi? Senza dubbio. Bisogna condannarle? Assolutamente. Bisogna farle cessare? Certamente. Ma una domanda d'importanza fondamentale s'impone un po' ovunque in Kosovo: dietro il battage sugli atti di violenza compiuti dagli albanesi c'è gente che auspica davvero la loro fine, ò al contrario perlomeno qualcuno spera avvenga esattamente il contrario? Alcuni osservatori stimano a giusto titolo, mi sembra - che le voci spettacolari, spesso addirittura provocatorie, orchestrate su questo tema, s'inscrivano talora in un meccanismo tendente a incoraggiare tale forma di revanche. In altre parole, per molti il Kosovo è assai più interessante quando è immerso nel pluriomiridio e nel sangue che al riparo da tali flagelli. Questo paradosso è legato a una serie di fattori: l'assenza d imparziahtèneU'informazione, la dissimulazione d'una parte della realtà, infine una grossolana e cinica mistificazione. ; Sono appena tornato da un soggiorno d'una settimana in Kosovo. Molte cose vanno meglio del previsto; altre, peggio. Le violenze degli albanesi contro i serbi e gli zingari, gli omicidi, le case incendiate e gli oltraggi sono mali innegabili. Ma si passa sotto silenzio 1 altra metà della realtà: la messa a morte degli albanesi. Continua, il numero di albanesi uccisi neU'ultimo periodo è superiore del 50 % a quello dei serbi. Ma la cosa veramente inammissibile, nella fattispecie, è il cinismo manifestato da chi sostiene che, dopo l'eccidio di cui sono stati vittime gli albanesi, il sangue di questo popolo costituisce ormai qualcosa di banale e privo d'interesse. Ci si preoccupa innanzi tutto del sangue altrui Torniamo alle vendette albanesi. Prima di esaminarle, occorre rispondere chiaramente a due domande capitali. In primo luogo: quali sono le chmensioni di questa revanche, comparate a quelle dei crimini serbi? Secondo: gli interessati, ossia gli Albanesi, la denunciano o meno? Per quanto riguarda il primo interrogativo, balza agli occhi di chiunque che crriniini serbi e reazione albanese sono incommensurabili. Quanto al secondo, posso rispondere assumendone la piena responsabilità che non solo gli intellettuali, i filosofi, gli scrittori, ma la stragrande maggioranza del popolo albanese rifiuta e denuncia le rappresaglie antiserbe. Chi scrive ha condannato peraltro senza mezzi termini questi atti nelle molteplici interviste accordate lungo il soggiorno in Albania alla stampa, alla radio e alla televisione, e ha lanciato un appello affinché le violenza cessassero, sollevando unanime approvazione. Si è affermato chiaramente che la vendetta è totalmente incompatibile con la morale universale e fondmentalmente pregiudizievole agli interessi del Kosovo; si è sottolineato che abbassa moralmente il popolo che vi si abbandona, e che costituisce una reazione miserabile e caricaturale. In definitiva, anche qualora centrasse perfettamente l'obiettivo, si limiterebbe a invertire il ruolo fra criminali serbi e albanesi, trasformando pure questi ultimi m assassini. Tale messaggio è stato recepito nel migliore dei modi dagli intellettuali e dai leader politici, ma anche dalle famiglie più atrocemente colpite i dal crimine (in particolare la famiglia Jashari di Drenice, che ha perso in un sol giorno 22 membri), da quelle cui hanno ucciso dei bambini o violentato delle ragazzine, e dalla maggior parte dei senza tetto. Penso che questo atteggiamento di fronte al crimine costituisca oggi una chiave decisiva per il destino del Kosovo e dei Balcani in generale. Osserviamo, in materia, due atteggiamenti opposti: mentre gli albanesi condannano la violenza esercitata contro i serbi, malgrado sia srnisuratamente inferiore a quella serba nei loro confronti, nessuna voce si è finora levata in Serbia per condannare i crimini perpetrati contro la popolazione albanese. Intellettuali, filosofi, scrittori: tutti tacciono, come fa del resto vergognosamente la sedicente opposizione serba. Ecco un test essenziale, da cui non si può prescindere. La condanna o l'assoluzione del crimine è la pietra di paragone per i Balcani di domani. Su questo punto non si può restare sordi nè ciechi. Dalla risposta che forniremo dipenderà la morale delle due parti in causa ma anche di quanti si trovano coinvolti da un problema dalle dimensioni ormai planetarie. E' in funzione dell'atteggiamento assunto davanti a questo problema che nascerà - o, al contrario, verrà soffocata - la nuova civiltà sì ardentemente auspicata per i Balcani. E' in gioco la loro europeizza- zione stessa. Ultimamente, la propaganda serba - assecondata dai suoi fiancheggiatori - ha lanciato una campagna di contro-verità sugli eventi kosovari. Tale propensione verso il revisionismo a ogni ecatombe, costituisce un fenomeno ormai notorio. Conferma la tesi ben conosciuta secondo cui ogni misfatto di ampie proporzioni è provocato e sostenuto da due tipi d'intervento: quello dell'esercito di criminali che lo commette e la truppa formata da quanti - non meno colpevoli - l'appoggiano e se ne ergono in seguito a difensori. L'olocausto antisemita ne rappresenta la migliore illustrazione. In Kosovo, ci troviamo alle prese con una situazione analoga. L'armata di quanti hanno le mani zuppe di sangue è provvisoriamente a riposo, ma un'altra armata dalla coscienza sporca si è messa febbrilmente all'opera. E' più perniciosa: mentre talora la prima è stata fisicamente sconfitta, l'altra sopravvive. La posizione dei serbi, dopo i loro crimini in Kosovo, trova sostegno nelle correnti sdoviniste dei loro «fratelli ortodossi slavi». Tra i nostalgici della Russia sovietica, le duecentocinquanta spie del Kgb in Italia, che sbraitavano più forte di tutti contro la Nato per difendere la Serbia, costituiscono una parte di queste forze d'appoggio. Il misfatto perpetrato vanta tra i suoi complici compromessi dubbi, inciuci, amnesie volontarie, infine il lavoro svolto da una banda di disinformatori professionisti composta da diplomatici, giornalisti o ispettori Onu. Il tirare con cinica avarizia, in barba all'Orni, sul numero reale di vittime albanesi va di pari passo con la reiterata affermazione in base a cui parecchi albanesi sono stati eliminati dall'Uck, e sbocca infine sulla grottesca trovata di accusare la Francia quale mandante di alcuni ira questi crimini! Il proverbio «l'annegato s'aggrappa ai propri capelh» s'invera nel regime serbo. Le sue armi sono la mistificazione dell'opinione pubblica, la perversità, la memoria corta e la fri volita umane. Affida in particolar modo le sue speranze a un'opinione pubblica spossata dal Kosovo, puntando cioè sulla fine della «moda Kosovo». E' un'espressione che avevo già sentito un dieci anni fa in un ufficio situato ad appena qualche passo da quello del presidente della Repubblica francese. Avevo domandato a un mio amico perché nessuno parlasse degli albanesi del Kosovo malgrado il terrore cominciasse a imperversare nella regione. Mi rispose con franchezza: «L'Albania non è di moda». All'epoca, la moda era rumena. Rievoco l'aneddoto senza rancore. Questo tipo di fenomeno è stato e rimane attuale. E' difficile rimproverarlo a uno Stato, a una società, a una cultura. Fa parte del nostro universo, di questa civiltà umana che ci augureremmo avidamente di vedere perfetta ma che è ancora sì lontana dalla perfezione. Sono stati necessari dieci anni, dunque, perchè il Kosovo si ritrovasse alla moda. 'Timor Orientale ha potuto diventarlo, sembra, grazie all'aito del Kosovo; i laudi, loro, hanno tentato a varie riprese di salire sul palcoscenico, ma invano; i ceceni hanno dovuto assistere allo sterminio d'un terzo della loro popolazione a causa della barbarie russa, e l'uscita dalla tragedia è ancora incerta. Quanto al lontano Tibet, gli toccherà senza dubbio aspettare ancora a lungo dietro le nebbia himalayane. E' particolarmente angoscioso vedere i destini dei popoli sfilare come le collezioni primaverili o invernali dei grandi sarti. Ma è un fatto assodato, di cui deve rispondere l'umanità intera. D Kosovo è oggi uno spazio ih cui la civiltà europea e occidentale si trova, nel contempo, attaccata e difesa. Non lo si può difendere solamente attraverso dichiarazioni di principio, belle frasi, proclami vuoti, e ancor meno attraverso la disinformazione. Sostenerlo richiede un impegno quotidiano, soprattutto in Kosovo, questa terra dove un popolo intero si è trovato dinnanzi a un dilemma: trapiantarsi altrove o farsi seppellire... (...) A quanti si occupano oggi del Kosovo, a quanti vi s'interessano effettivamente come a quanti fanno finta, è il caso di lanciare un appello: per placare l'odio tra i popoli, prosciugate le fonti di quest'odio! Cercate altre fonti, quelle della nobiltà di cuore! Sono ancora timide, eppur presenti fra tutti i popoli dei Balcani. Solo così aiuterete quella parte di Balcanici allucinata dal male a riprendersi. Quest'Europa, che ha preso sotto il suo arbitrato un settore della Penisola, deve estendere ovunque la sua influenza. I suoi intellettuali devono rinunciare a ingenue reazioni di meraviglia tipo: «Dio mio! Come sono colti X o Y, intellettuali serbi! Ma non appena si nomina la parola Albanese danno in escandescenze!». Bisogna dirsi che nessun individuo colto può provare una reazione di rigetto sentendo semplicemente menzionare un altro popolo. Quanto a questo tipo di meraviglia, è analogo a quello che sperimentavano degli ingenui della stessa tempra dinnanzi a personaggi come Goering o Franck perchémartifestavano un certo gusto per la pittura e la musica, e malgrado i conati provati nel sentir pronunciare la parola «ebreo». Nel Kosovo, e nei Balcani in generale, è importante vincere la cultura dell'odio per sostituirle una cultura nuova. Esiste già, è presente, e non è un pio desiderio auspicare che finisca per prevalere. Dal 17 al 24 novembre, in Kosovo, ho assistito come decine di migliaia di persone a un'attività culturale febbrile. Una fiera del libro albanese, in cui una sessantina di case editrici Kosovare, albanesi e macedoni esponevano la loro produzione più recente, e in cui sono state vendute migliaia di opere, dalla Poetica d'Aristotele e dalla Bibbia alla narrativa di Joyce; la commemorazione del raffinato poeta albanese dogli Anni Trenta Lasgush Poradeci, l'inaugurazione d'un centro culturale per giovani, Ghetto's Art; la rappresentazione, infine, dell'Amieto di Shakespeare. Che io sappia, l'eco sui media è stato nullo. Gli Stati rapaci sono esasperati dalla cultura dei popoli che si apprestano ad asservire. Confonde i loro progetti e, prima di consacrarsi ad annientare i popoli, si preoccupano di negare la loro cultura. Così ì ceceni, prima dell'attacco, sono stati presentati al mondo come barbari, ignoranti e banditi. Ma l'ammirevole giornalista russa Zoja S vieto va, sulla rivista Rouskaia Misi del 10 novembre, raccontava un'altra Cecenia, dissimulata agli occhi dell'opinione pubblica russa e mondiale. Rammenta che in questo piccolo Paese del Caucaso fiorivano fino a ieri istituzioni culturali e scientifiche, teatri, scuole superiore, e biblioteche il cui numero raggiungeva - pare - quota 362! Ebbene, tutto questo è stato pressoché distrutto dall'offensiva «civilizzatrice» russa. • La febbre culturale che oggi regna a Pristina è una potente testimonianza della sete di vivere che anima questo popolo, malgrado sia ancora in lutto. E' un atteggiamento cui rendere omaggio. Che cosa c'è di più nobile deiTappello lanciato agli albanesi: «Dopo aver vinto la guerra, bisogna che vinciate la pace!»? Ma perché sia possibile, bisogna aiutarli. Nulla è più penoso dell'osservare che 11 Kosovo interessava molti soprattutto per la sua morte an nunciata. Questo approccio nefasto deve cessare. Il Kosovo, e con lui tutti i Balcani devono suscitare interesse in primo luogo non per la loro morte bensì per la loro vita. Copyright Lo Monde scnAtnSpfiop(nvA Le violenze albanesi contro serbi e zingari sono innegabili ma si tace sugli eccidi di cui gli albanesi sono vittime: il sangue di questo popolo è ormai privo di interesse Trai nostalgici della Russia sovietica le250spie del Kgb in Italia che urlavano più forte di tutti contro la Nato per difendere la Serbia sono una parte della disinformazione o a ne, ne) 1954 con romanzi all'elemento suo popolo, i ( 1981 ). Ne no-albanese e comunista, ni ha fatto la nte a favore no di Levine, ughi a Kukes Lo scrittore albanese IsmaiI Kadaré ha esordito, ventenne, ne) 1954 con la raccolta poetica Ispirazioni giovanili. Si è affermato con romanzi che elaboravano con scrittura raffinata e sapiente ricorso all'elemento fantastico una materia tratta dalle tradizioni nazionali del suo popolo, da ff generale dell 'armata morta ( 1970) a lì palazzo dei sogni ( 1981 ). Ne Il concerto ( 1968) trattava in chiave grottesca l'amicizia cino-albanese e questo gli procurò critiche e contrasti con il regime comunista, tanto da scegliere nel '90 l'esilio in Francia. Negli ultimi anni ha fatto la spola fra Tirana e la Francia e si è impegnato pubblicamente a favore degli albanesi del Kosovo. A destra lo scrittore in un disegno di Levine, sopra ragazzi in un campo profughi a Kukes

Persone citate: Albanesi, Goering, Kukes, Levine, Zoja