L'epopea di un uomo solo al comando

L'epopea di un uomo solo al comando L'epopea di un uomo solo al comando Gian Paolo Orrneoano NATO ara rinato a metà del diciannovesimo secolo come pratica salutistica per la forgiatura di corpi maschili adatti al consumo bellico, insomma per fare più sani e forti i militari con opportune pratiche ginniche, lo sport ha presto cercato la sua prima spettacolarizzazione moderna, a scopi subito commerciali: produzione dello show e arricchimento dei suoi organizzatori ed attori. Da allora, storicamente dal 1894, quando al congresso olimpico di Parigi, il primo dell'era moderna, il barone francese Pierre Fredi de Coubertin lanciò i Giochi moderni, edizione inaugurale nel 1896 ad Atene, nello sport individuale non si è fatto altro che cercare l'epopea, intanto che lo sport collettivo, il gioco, cercava la produzione di gruppo, con agganci ludici assortiti. L'epopea dello sport individuale dura ancora adesso, e durerà pensiamo sempre, anche se sempre dovrà darsi nuove invenzioni, nuove trovate per concorrenziare le molto più comode produzioni dello sport collettivo. Epopea nel senso di esaltazione dell'uomo (e della donna) in maniera ora brutalmente elementare, ora sapientemente sofisticata. Dagli eroi del triathlon, nuoto più corsa più ciclismo per un otto ore, triplicubili nella terrificante recente versione hawaiana dell'«ironnman», uomo di ferro, un giorno intero di semplice tremenda fatica senza soste, agli imitatori di Icaro che cercano di volare, o meglio di dirigere caduta, con una tuta 'pirmate'1^'iifrahcesè tdtrick De Gayardon, misteriosamente schiantatosi ai piedi di una montagna delle Hawaii, è il loro dio). L'epopea colpisce le genti, fa si che gli uomini si sentano piccoli nel loro tran-tran personale ma grandemente impegnati a delegare altri a cantare la grandezza del bipede impiume. L'epopea arricchisce giustamente il suo protagonista: meglio se bisognoso incapace però di mettere troppo avanti i suoi bisogni (il poveruomo ideale, insomma, per poeti, dittatori, sfruttatori, adesso sponsor). Quando nel 1903 il giornalista francese Henri Desgrange inventò, per i ciclisti disperati che usavano la bicicletta come strumento del loro miserabile lavoro, il Tour de France, disse che si trattava di «uno dei modi più rapidi per trasformare un povero in un ricco, lotteria a parte». La grande lunga secolare storia dell'epopea sportiva può secondo noi essere divisa in tre grandi periodi, o momenti, o tendenza: 1) epopea della quale sono protagonisti uomini poveri, magari atleticamente non troppo dotati, capaci però di sacrifici sino al fachirismo, per realizare imprese improponibili agli altri 2) epopea della quale seno protagonisti uomini mediamente, .agiati, comunque senza problèmi di sostentamento, uomini di fisico poco più che normale, capaci di fare bene, benissimo le cose che gli altri magari potrebbero fare, ma che preferiscono delegare 3) epopea della quale sono protagonisti uomini anche ricchi, comunque presto arricchiti, capaci però di imprese mirabolanti, lontane dalla comprensione media ma in grado di attirare e sbalordire. La seconda epopea occupa larga parte degli anni del secolo, ed in pratica dà vita a tutto lo sport invidi) ale codificato moderno, diciamo per semplificare allo sport olimpico. Però lo stesso sport olimpico ha avuto, alla sua prima edizione, una colossale epopea del primo tipo. E qualcuno pronostica, •nel programma dei Giochi del Duemila, diciamo entro la prima decade del prossimo secolo, l'introduzione di sport da epopea del terzo tipo, per intenderci i cosiddetti sport estremi. Diciamo della prima Olimpiade, Atene 1896. La prova della maratona, la più attesa per la sua forte valenza evocativa - la gara podistica si ispirava all'impresa del soldato greco Fidippide che nel 490 avanti Cristo percorse di corsa la distanza dal villaggio marino di Maratona sino ad Atene, per recare la notizie di una vittoria navale sui Persiani, e dato l'annuncio esalò l'ultimo respiro -, la prova della maratona dicevamo fu vinta da Spirdione Luis, pastore di Marussi, adesso banlieue ateniese allora villaggio separato dalla città. Era un poveraccio che per doparsi si nutriva di fichi, dieta iperglucosica cioè, e che credeva alle promesse: come quella di dare in sposa al vincitore, se greco, una principessa della casa reale elleni¬ ca. Ma un pastore con odor di capra era troppo anche per una principessa di cuore ampio e olfatto ridotto, e Spiridione dovette accontentarsi di premitizzi vari, fra i quali una lucidatura di scarpe gratis, a vita, presso gli ateniesi addetti a quell'operazione. Sessantaquattro anni dopo, ai Giochi di Roma 1960, la maratona veniva vinta, all'antica, da un etiope scal¬ zo, Abebe Bikila guardia del Negus, che finiva la corsa, dipanatasi specialmente lungo l'Appia Antica, all'arco di Costantino, con sotto i piedi una suola di ghiaietto conficcatasi nella carne. In mezzo c'era stata l'epopea anch'essa povera, classica di Dorando Pietri, italiano, fornaio a Carpi, crollato a terra, rialzato dai giacici, quasi portato al traguardi dostante pochi metri, primo ma squalificato, c'era stata l'epopea "normale" dei grandi pedoni metronomi, su tutti (Helsinki 1952) Emila Zatopek, maggiore dell'esercito cecoslovacco, un faticatore regolare, un produttore di moto uniforme, unica concessione alla visualizzazione della fatica una smorfia di sofferenza teatrale, un rictus accattivante. C'erano stati prima i grandi esploratori dello sport, attraversatoli di laghi e golfi, camminatori di deserti e scalatori di vette, ciclisti delle Sei Giorni (e sei notti) pedalando senza mai dorrnire e delle corse a tappe da 500 chilometri a botta, lottatori serial killers di avversari abbattuti uno dopo l'altro, su tutti l'italiano Raicevich. Poi lo sport indivuale "di mezzo" ha visto produzione di epopea da parte soprattutto di personaggi normali, della buona società: meglio se ricchi, per potersi dire dilettanti o meglio amatori senza dove rsubire indagini sul loro status patrimoniale. Inglesi eleganti, algidi sereni scandinavi, compassati metodici tedeschi, nordamericani gonfi di salute, al massimo faticatori di stato dell'esteuropeo, produttori regolari di fatica che il socialismo reale premiava con la carriera appunto statale. E anche italiani borghesi o fatti subito tali, capaci di suggere il latte altamente proteico dalle tre mammelle che il nostro sport si è offerto tutte insieme: quella del parastatalismo (soldi dal Coni, dalle federazioni), quella dello statalismo (carriere agevolate, specie nei corpi militari e nell'insegnamento), quella del liberismo capitalista (sponsor, ingag- §i, premi). Negli ultimi dieci anni el secolo l'epopea è stata proposta dagli apostoli degli sport estremi, elementari o con altro supporto tecnologico, ma sempre ritagliabili, isolabili da una pratica non diciamo di massa, ma anche di piccola élite. Sport estremi già per l'estremismo della ricerca di essi: l'Oceano a vela, ma che dico a vela, a remi, ma che dico a remi, a nuoto. La grande parete già scalata da altri, però in braghette e maglietta, ed a mani nude, senza attrezzi, corde, chiodi (no limits, dice una pubblicità). La corsa, ma tutta in quota, la maratona a 4000 metri, dove l'ossigeno è povero, degli skyrunners, i corridori del cielo etiopicio italiani o statunitensi, oppure il su e giù di tipo nuovo per la montagna: il valdostano Bruno Brunod va da Cervinia al Cervino e ritorno in tre ore. Per un De Gayardon che si schianta cento si propongono con le loro audacie. Risalire i fiumi? Sì, ma scalando le cascate di ghiaccio. Oppure stare sott'acqua per 7 minuti, o andar giù tìegli abissi per 150 metri. Alpinismo di freeclimbers, arrampicarsi come si vuole, ma anche gli antipodi dell'alpinismo, la speloeologia adesso sempre estrema, pericolosa. Rispetto al pastore greco di Atene 1896 questi nuovi fachiri sono bene pagati, godono di straordinaria assistenza tecnologica, devono osare moltissimo anche per far scordare quanto sono aiutati, sponsorizzati, supportati, assistiti pure chimicamente. Si dice, si giù ra che lo spirito è sempre lo stesso: esplorazione dei biniti dell'uomo. Ma lo sport estremo propone anche esplorazione di limiti di una tuta speciale, di un telefonino di emergenza, di un materiale sofisticato. Sembra finito il fascino chiaro, facile del rapport spazio-tempo, o tempo-fatica, quello che per tanti anni ha esaltato le prove di velocità assoluta e di resistenza massima, sia che l'uomo fosse incapsulato in un'auto, sia che corresse da solo nella valle della morte, meravigliosamente sbrancato rispetto ai suoi simili. Patrick De Gayardon, l'«uomo volante», simbolo degli sport estremi, morto durante un lancio alle Hawaii

Luoghi citati: Atene, Carpi, Hawaii, Helsinki, Parigi, Roma