Il genio bizzoso che ammaliò Moro

Il genio bizzoso che ammaliò Moro Dai furibondi scontri con Craxi alle battute sulla De, «il partito più ateo della politica italiana» Il genio bizzoso che ammaliò Moro Qì UANTO ha regalato, quanto ha prodotto, quanto ha offerto alla vita pubblica italiana quel cervello di cui oggi ci si chiede disperatamente u destino? Nessuno più di Nino Andreatta pensava, e in questo suo pensiero velocissimo, sbalorditivo, sembrava perdersi inseguendo spirali di inusitata brillantezza. Sembra impossibile, adesso, che quel suo pensiero, quel suo ragionare in cui le sintesi arrivavano con una specie di schiocco di frusta sia fuori registro, annichilito dal male. E' sempre stato un raro privilegio parlare con il professor Andreatta. «Intelligenze così - ha detto Amato - ne arriva una ogni secolo». Era il suo un modo curioso di parlare, di rispondere. Si concentrava ripiegato su stes. so, il mento sul petto, gli occhi chiusi, le braccia conserte, non di rado i piedi sul tavolo, come se dormisse. Quante volte, da ministro, a Montecitorio, gli hanno gridato: «Sveglia! Sveglia!». In realtà non dormiva per niente, era una specie di transe intellettuale. Infatti di colpo Andreatta apriva gli occhi - di tanto in tanto attraversati da lampi di cattiveria e d'ingenuità - e dopo aver aver fatto una smorfia che voleva dire «boli», «mah», «chissà», sganciava prodigi di efficacia raziocinante, idee pure, concetti nudi. Espressi senza alcuna cautela. «La verità - si leggeva in uno dei suoi manifesti elettorali: - niente di più sovversivo». Il più delle volte quei giudizi si capivano dopo. Ma anche prima avevano una suggestione fortissima. Di solito Andreatta procedeva per salti, paradossi, provocazioni. Già Nenni rimase colpitissimo da quel giovanottone: Ugo La Malfa si infuriò; Moro, che era Moro, e quindi probabilmente il più sofisticato, compiuto e involuto ragionatore della politica italiana di questo secolo, fu sedotto. Lo prese con sè, se lo portava in giro, ne frenava l'irruenza, ne spuntava le lame dialettiche. Moro era, del resto, l'unico democristiano di cui Andreatta, democristiano anomalo, di scuola britannica, aveva soggezione. Per il resto, da giovane, aveva amato parecchio Dossetti, di cui andò anche a chiedere consiglio in un momento difficile, ma non aveva rispetto di nessuno. Quando parlava Leone, una volta, in una riunione internazionale, fu visto mettersi la cuffia per ascoltare la traduzione inglese. Enrico Cuccia lo affrontò direttamente più di una volta, tirando in ballo anche l'età. Da ministro della Difesa, sull'obiezione di coscienza, riuscì a prendersela anche con la Caritas. Vulcanico, bizzoso, tagliente, istrionico, timido e onestissimo. Riteneva la contestazione (che aveva visto sorgere all'istituto di sociologia a Trento) «una forma di regressione antropologica». In¬ torno alla metà degl i anni Settanta, contro le rivendicazioni salariali, propose aumenti in buoni pasto. Della De disse una volta che era «il partito più ateo della politica italiana». Però tra le cose più belle che lo riguardano c'è un botta e risposta con Paolo Guzzanti, allora a Repubblica, all'indomani della scoperta da parte della polizia (1982) di un piano che prevedeva l'assalto con missili e bazooka del palazzone di piazza Sturzo - che peraltro Andreatta trovava bruttissimo. A guardarsi in fretta e furia la busta dei ritagli colpisce, oltre all'ovvia serialità dell'informazione riguardo alla sua eccezionale sbadataggine (dimenticata moglie in albergo a Roma, automobile a Londra e pipa accesa in tasca), il numero di volte in cui, nell'arco di un ventennio, i giornali titolavano le interviste di Andreatta con le stesse parole: «Non sono pentito e vi spiego il perché». Il suo quasi omonimo Andreotti si esercitò gastronomicamente sul personaggio sostenendo che era come la mostarda: «Poca, dà sapore; un piatto intero non si mangia». Andreatta giocava a fare il professore di campus anglo-sassone e il tecnocrate. Anche fisicamente, con la pancia, i golf etti e gli occhiali poggiati sul ciuffo, recitava bene entrambe le parti. Ma aveva anche un senso molto potente della sua fede - il che giocava contro la vocazione tecnocratica - e un'idea altrettanto forte dello Stato. Al Tesoro si trovò di fronte allo scandalo Ambrosiano e nell'aula della Camera - il momento difficile della consultazione del monaco Dossetti - ebbe il coraggio e l'onestà di chiamare in causa (per insolvenza) non solo la Santa Sede, ma anche il suo sovrano, il Papa. Era - si spera rimanga ancora - un politico molto più puro di quanto lui stesso immaginasse: «Il politico deve essere creativo, poeta... La politica è mettere la maschera, come nel teatro classico». Ha fatto cadere governi (il primo Spadolini: la celebre «lite delle comari») e altri ne ha costantemente terremotati. Con Craxi fu un duello davvero epico. Lì diede il meglio della sua cattiveria da bambino intelligente e impunito. Andò evidentemente oltre misura, con paragoni storici (il nazional socialismo; il caudillismo) e costanti richiami al rigore. In qualche modo deve anche averlo sentito concorrenziale, ma questo esasperava e proiettava il conflitto in un mondo di archetipi che si scontravano in una dimensione posta ormai ben al di là della vita politica. Sul nucleare l'ultima contrapposizione. Lui nuclearista sfegatato. Con lo pseudonimo Ghino di Tacco Craxi gli dedicò un corsivo contundente intitolato «Il dottor Stranamore». Quando finalmente la De di De Mita (altro grande cervello disposto a lasciarsi ammaliare da Andreatta) riuscì a schiodare Bettino da Palazzo Chigi e a sostituirlo con un Fanfani tecnico e ultraottantenne, scolpì: «Se Craxi ha governato per quattro anni, Fanfani può restare per cinque». E' stato ministro di quasi tutto quello che conta in Italia (Esteri, Tesoro, Difesa, Bilancio). Berlusconi l'ha sempre trattato con una condiscendenza che rasenta il disprezzo: «Venne a chiedermi di fare il presidente della Cariplo». Nella lunga transizione ha inventato Martinazzoli e poi Prodi, che è stato il suo assistente e che si vanta di dargli del lei. Quando Prodi lo mise a via XX settembre, tra i generali, commentò: «li solito sadismo degli allievi nei confronti del maestro». L'altro giorno aveva lanciato la candidatura di Bazoli al posto di D'Alema per le elezioni del 2001. [f.cec.l Un'intelligenza acutissima capace però di scordarsi la pipa accesa nel taschino Un suo manifesto per le elezioni: «La verità niente di più sovversivo» Da sinistra: Aldo Moro, l'unico democristiano di cui Andreatta aveva soggezione, Bettino Craxi e Romano Prodi che fu assistente di Andreatta e poi lo volle nel suo ministero al dicastero della Difesa

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