Schiavi di Hitler, la battaglia italiana di Maurizio Molinari

Schiavi di Hitler, la battaglia italiana Il giorno dopo l'accordo raggiunto tra Stati Uniti e Germania denunciano: qui nessuno ci ha mai aiutati Schiavi di Hitler, la battaglia italiana In decine di migliaia sperano nei risarcimenti Maurizio Molinari ROMA La decisione del governo di Berlino di partecipare al rimborso degli «schiavi di Hitler» da parte delle grandi aziende tedesche è stata accolta con speranza nelle tante case di italiani che durante la Seconda guerra mondiale furono obbligati con la forza a lavorare nell'industria di guerra del Terzo Reich, ma che da allora hanno ricevuto poco o nulla. Lo storico Rie ciotti Lazzero nel suo «Gli Schiavi di Hitler», edito nel 1996, riassume le cifre ufficiali dei «lavoratori italiani)» impiegati nel Terzo Reich nel gennaio 1945 dividendoli per aree: 100 mila in quella di Monaco, 70 mila ad Amburgo, 14 mila a Graz, 40 mila a Vienna, 6 mila in Garin zia, 10 mila a Stoccarda, 130 mila a Berlino, 150 mila a Colonia, 40 mila a Dresda, Oltre mezzo milione di persone: fra loro c'era chi aveva accettato volontariamente l'offerta di lavorare (pagato) per la macchina bellica nazista e chi invece aveva dovuto farlo perché arrestato, deportato, obbligato. Sono questi ultimi i «lavoratori coatti italiani del Terzo Reich» che sperano di poter accedere ai fondi messi a disposizione dalla Germania grazie alla causa vinta dalle organizzazioni ebraiche. «Firmando l'accordo con Clinton, il cancelliere Schroeder ha detto di voler chiudere l'intero capitolo del lavoro coatto, quindi anche quello italiano», spiega Joe Golan, veterano dei negoziati sui risarcimenti fra le organizzazioni ebraiche e la Germania. Nel caso italiano «gli schiavi di Hitler», nella grande maggioranza non erano ebrei. Basta mettere piede in una delle tante associazioni di reduci, ex prigionieri politici ed ex perseguitati disse • hingo la Penisola, per i conto dell'entità del IffiBno. Esempi'- e testimoWJflSIrSaTtex- lavoratori" coatti abbondano. Renato Cesarmi, 78 anni di Perugia, venne preso in divisa dai tedeschi a Pinerolo il 10 settembre del 1943, fini a costru¬ ire carri armati nella «Herbert Vida! und Sond» di Amburgo. «Di me e dei miei 60 compagni non si è mai interessato nessuno», dice. Bruno Ansaldi di Pavia passò due anni a montare ali di aerei a Kiel, morto nel 1984, la figlia Lucilla ha scritto alla Volkswagen. La risposta lo scorso giugno è stata: rimborsiamo i vivi, suo padre è morto. Rosario Del Balzo, 76 anni, dopo l'8 settembre rifiutò di andare con i repubbli chini a Salò: finì ai lavori forzati nelle miniere di carbone fra Praga e Monaco, chiede invano i risarcimenti dal 1964. Giovanni Desiderio fu razziato dai tedeschi a Castellammare quando aveva poco più di 16 anni: montò componenti di tank e aerei a Graz fino alla fine della guerra. «Chissà se prima di morire-potrò avere qualche lira», si chiede. - Dai civili razziati ai soldati imprigionati dopo l'8 settembre: di storie come queste è pieno il nostro Paese. Ma gli «schiavi italiani di Hitler» vagano da anni in cerca di un interlocutore, di un aiuto, di un consiglio su cosa fare. Nei loro cassetti ci sono pile di lettere a fax inviati a Palazzo Chigi, Farnesina e ministero del Tesoro. Si sentono abbandonati. Alcuni di loro hanno tentato negli ultimi mesi di contattare la commissione presieduta da lina Anselmi sui risarcimenti agli ebrei perseguitati, la risposta è stata: «La questione del lavoro coatto non è nei nostri compiti, se il governo ce lo chiede ce ne occuperemo». Il governo, al momento tace. Alla Farnesina vi sono dei funzionari che hanno seguito i negoziati fra Stati Uniti e Germania: «Si è trattato di una causa privata intentata da singoli contro le fabbriche tedesche, in Italia nessuno l'ha fatta», dicono. Ma poi ammettono: «Ora che il governo tedesco ha accettato di condividere i pagamenti gli aspetti giuridici cambiano», e potrebbero aprirai spiragli per un'interessamento del governo italiano sul modello di quanto fatto da quello degli Stati Uniti per i propri cittadini. Polonia e Francia hanno già compiuto i loro primi passi. Nel gennaio '45 erano cinquecentomila in maggioranza non ebrei: «Da più di 50 anni cerchiamo invano un interlocutore» Lavoratori forzati in una fabbrica tedesca durante la guerra