Firmare per Grozny? Tanti sì, qualche no di Sergio Romano

Firmare per Grozny? Tanti sì, qualche no Le reazioni degli intellettuali alla missione di pace a Mosca di Glueksmann, Lévy e Spinelli Firmare per Grozny? Tanti sì, qualche no Convinto Mieli, scettico Romano Aldo Cantillo «1/anno 2000 non deve aprirsi con l'apocalisse di Grozny. La Russia si rende colpevole di crimini contro l'umanità». Firmato: André Glueksmann, Bernard-Henri Lévy, Barbara. Spinelli. I due «nouveaux philosophes» e l'editorialista de La Stampa sono a Mosca «come amici di un popolo che provò le peggiori maledizioni del XX secolo», per chiedere di «cessare il fuoco immediatamente» in Cecenia, avviare negoziati, «fermare la nuova guerra fredda appena innescata». Un grido contro la tragedia di Grozny, e, indirettamente, contro l'indifferenza dell'opinione pubblica, che appassiona e fa discutere gli intellettuali. «Se non fosse mia abitudine evitare di firmare qualsiasi appello, questo sarebbe il primo per cui farei un'eccezione. Perché lo condivido parola per parola - spiega Paolo Mieli -. Al danno di non procedere militarmente, come in Kosovo, o di non minacciare l'intervento, si aggiunge la beffa di un atteggiamento colpevole, di una distrazione, di un distacco che, in particolare nel nostro Paese, colpisce e offende. Gli argomenti cui accenna l'appello dovrebbero mobilitare energie é sensibilità, per fare della questione cecena una grande questione europea, che all'inizio del nuovo secolo avrebbe un alto valore simbolico». Al telefono da Parigi, dov'è stata concepita l'iniziativa, Edgar Morin argomenta: «Ho letto il testo dell'appello su "Le Monde". E condivido la protesta. Spinelli, Glueksmann, Lévy fanno bene: condannare la guerra cecena è giusto. Ma per comprendere e affrontare la questione caucasica occorre considerare altre cose oltre alla protesta. Dietro il e ~ oté umanitario affiora quello politico. E' un po' come la istoria decennale dei contrasti tra Israele e palestinesi: alla condanna della barbarie va aggiunto l'approccio politico, che prevede negoziati e compromessi». La riflessione critica di Sergio Romano si spinge oltre: «Tutti quanti noi vorremmo che i russi vincessero la guerra con altri meto- di. Ma noi non abbiamo a che fare con i ceceni; con questo Stato, o pseudo-Stato, nato e cresciuto ai margini della legalità. Mi pare che in Occidente non ci si renda conto di quello che è in gioco per la Russia: la sua integrità territoriale. H rogo ceceno può accendere altri focolai separatisti. A torto o a ragione ( secondo me abbastanza a ragione), i russi si sentono accerchiati: a causa dell'allargamento della Nato, della guerra del Kosovo, degli interessi occidentali nel Caucaso e nel Caspio. C'è poi il bisogno psicologico di riscattare la sconfitta nella prima guerra cecena, e la vicenda, catastrofica per Mosca, del Kosovo. Certo, sulla strategia di Eltsin hanno influito anche le elezioni imminenti. Certo, tutti siamo choccati dal modo con cui la guerra è condotta. Il tasso di accanimento bellico ci indigna. Ma la nuova tattica russa risente anche della lezione della Nato». Dalla parte dell'appello dei Tre si schiera decisamente Miriam Mafai: «E' un'iniziativa da sostenere. I diritti dei popoli sono la frontiera che si sono date la sinistra e l'Europa, pur in forme compatibili con i rapporti di forza, come nel caso della Turchia. Noi europei non possiamo alzare la bandiera della difesa dei diritti umani nel Kosovo, e ammainarla di fronte a una potenza che dispone di anni atomiche. Mi rendo conto delle esigenze del realismo politico. Ma queste non possono andare a dispregio di principi e valori che abbiamo affermato pochi mesi fa. La condanna di quanto accade nel Caucaso dev'essere più esplicita». Gillo Pontecorvo, c*^ con «La battaglia di Algeri» cil ù la lotta indipendentista e anticoioniale, introduce un elemento di dubbio: «Mi domando se quella dei ceceni si possa considerare una guerra d'indipendenza. Forse sì. Dobbiamo però tenere conto di un fattore che non conosciamo appieno, o che almeno io non conosco: l'incidenza dell'estremismo islamico. Se girerei oggi "La battaglia di Grozny?" Sinceramente non saprei». Un passaggio in particolare del testo dell'appello non convince Sergio Romano: «L'invito a "non rinnovare i crimini di Stalin" potrebbe far pensare a un accostamento tra Eltsin e il dittatore georgiano, che mi pare improprio. Credo si possa dire che a Grozny la Russia difende interessi nazionali». «Sono in genere contraria ai confronti tra personaggi ed epoche storiche, ma in questo caso l'evocazione di Stalin mi pare legittima ribatte Miriam Mafai -: perché proprio sotto la sua dittatura interi popoli furono deportati. La pulizia etnica, l'idea di separare un popolo dal territorio, è un tratto distintivo di quella stagione che oggi purtroppo iaffiora». «Escludo - aggiunge Paolo Mieli - che quel passaggio sottintendesse un paragone tra Eltsin e Stalin. Piuttosto denuncia l'analogo atteggiamento - il silenzio, l'indifferenza, l'eccesso di realismo - con cui l'Occidente finse di non vedere i massacri staliniani negli Anni '30, e oggi volge lo sguardo dalla tragedia cecena». A sinistra, Paolo Mieli, qui accanto Sergio Romano