Alla fine la guerra restò senza guerrieri

Alla fine la guerra restò senza guerrieri Continua il conto alla rovescia verso il nuovo % K Millennio, diciotto giorni all'arrivo del Duemila Alla fine la guerra restò senza guerrieri LA guerra non cambia carattere in pochi secoli: si muove cpn la stessa lentezza dell'evotazione, attraverso mille anni,, ;Il guerriero era colui che nel ppirnhattere, trovava il compimento di un momento essenziale del suo destino. Il guerriero, come lo sciamano e il boia, si distingueva dal resto della popolazione perché il suo mestiere era esporsi ai più grandi pericoli, toccare i tabù supremi, essere un professionista della morte. Inferta e ricevuta. Lo si diventava pendestino: per obbligo di nascita, recitando poi il breviario del coraggio riuniti nel gruppo degli adepti di una difficile religione, seguendogli stessi rituali, sicuri di avere come premio il ricordo e la venerazione. Ùguerriero, all'inizio, era Achille. Poi, lentamente, ha cominciato a sbiadire e al suo posto è venuto il soldato: Achille è stato sostituito da Ulisse, il coraggio dall'organizzazione, dall'astuzia, dall'occultamento. Il guerriero era unico, diverso: anche nel vestire sottolineava la sua solitudine, con i simboli araldici, i gradi, le uniformi vistose, la spada luccicante. Il soldato è uguale, si nasconde nella massa, il suo coraggio è un fatto di numeri e di imitazione. La trasformazione del guerriero in questi mille anni non ha portato alla fine della guerra: purtroppo l'ha moltiplicata e resa più astuta e feroce. Adesso i conflitti sono aziende anonime, comandate da direttori manager amministratori. Il guerriero è stato ucciso da oggetti, da cose. L'arco Gli arcieri inglesi lo ignoravano, ma i generali combattono spesso la guerra precedente. Per questo perdono. Altrimenti sarebbero stati più tranquilli, nel fango appiccicoso della piana di Azincourt nell'Artois, il 25 ottobre 1415. Nessuno di loro sapeva perché attendeva che i cavalieri francesi venissero avanti come una gigantesca, rombante sferzata di ferro. Era una rissa tra re, in due dicevano di essere padroni della stessa terra, e si battevano come loro nelle locande, per una ragazza o un daino ucciso di frodo. Loro volevano soldi, una paga, il bottino. I nobili francesi sui loro grandi cavalli bronzei, lucidi di sudore come se fossero di metallo, erano una razza diversa: potevano scegliere se combattere o no, custodivano le spade e le lance portatrici di una virtù letale come oggetti di sacrificio, le usavano solo dopo un digiuno, una veglia, un sacrificio. Come se dovessero andare a messa. Per gli arcieri la vita e la morte erano tutte in una bacchetta di due metri di legno di olmo, levigato per ore per giorni davanti al fuoco. Per piegare quegli archi ci voleva forza; ma la freccia con il suo punteruolo di ferro, poi, poteva trapassare una corazza. La freccia è l'immagine della guerra: è un oggetto ostile, serve solo a uccidere, porta con sé una sentenza di morte. Eppure l'arco rende uno stracciato boscaiolo uguale a un barone. Un cavaliere con la sua spada poteva tagliarlo a metà o portarne via la testa, ma a trecento metri, davanti a un arco, era soltanto un povero uomo vulnerabile. Adesso che il terreno cominciava a tremare sotto l'urto dei cavalli e sceglievano un dardo tra quelli piantati davanti a sé, in bella fila, gli arcieri sentivano l'odio salire come un narcotico. Bastava ricordare il giuramento del re di Francia: tagliare agli inglesi catturati le tre dita che servivano per tendere l'arco, per punirli di aver osato prendere dì mira un nobile. La lunga linea di ferro cominciò a srotolarsi nel fango. Gli arcieri presero la mira, con calma, la nobiltà di Francia cominciò a cadere. Il fucile Fino alle due del pomeriggio del 20 settembre 1792 gli ufficiali di Brunswick, ben allineati sulle colline basse e perfide di Valmy, erano sicuri della vittoria. Il loro generale era un maestro nel manovrare, aveva ben imparato la lezione del grande Federico: avvicinarsi parallelamente al nemico e poi far ruotare le truppe per fronteggiarlo; o muoversi ad angoli retti e poi raggrupparsi in linea per colpire. Molti degli ufficiali erano veterani, avevano combattuto con il grande Fritz. Non tutti erano prussiani, c'erano sassoni, francasi ugonotti fuggiti in Piussia generazioni prima per evitare le persecuzioni, scozzesi. Uno degli amici del re non era forse Rupert Scipio von Lentulus, uno svizzero che vantava origini nell'antica Roma? Non avevano patria, erano professionisti della guerra, scrupolosi e efficienti, il loro mondo era la bandiera per cui si battevano, il loro onore le regole del mestiere. Le battaglie erano sanguinose, certo, ma seguivano regole raffinate come una partita a scacchi o un ricamo: vinceva chi manovrava meglio degli altri e alla fine della giornata aveva conquistato un villaggio, una collina, aveva chiuso il nemico davanti a un fiume. Cominciarono a capire che quel giorno la guerra era cambiata quando videro i francesi restare impavidi sotto il fuoco dell'artiglieria. Poi «i cannagnoli», quei volontari raccolti tra la plebaglia di Parigi, avanzarono al grido di «Viva la nazione»: ebbero la certezza che era nato un mondo nuovo. Loro, per evitare perdite eccessive si sa- rebbero ritirati, lasciare il campo nelle guerre del secolo dei lumi non era un disonore, istruire un soldato a marciare al suono dei pifferi, a caricare il complesso archibugio sparando con calma, costava troppo tempo e denaro: era meglio risparmiare quegli artigiani della guerra per la prossima battaglia. Ma i francesi usciti dalla Rivoluzione erano soldati diversi: trasportati da un furore che li invadeva come una colata di lava, che gli ufficiali prussiani non riuscivano a capire, selvaggio e pagano. Quei borghesi e proletari parigini combattevano perché odiavano il nemico. Impugnavano i fucili come per un'esecuzione, dovevano annientare una razza diversa e malvagia in nome di una virtù. I Francesi avevano scoperto un'arnia nuova e terribile, incontrollabile: l'ideologia. Il cannone Dopo ogni salva seguiva un silenzio come quando in cielo fu aperto il settimo sigillo. La terra era scossa, friggeva, tremava, esplodeva in tutte le sue fibre, fluttuava in aria come perenne nube di fuoco fumo e polvere. Il 21 febbraio 1916 la morte scese su Verdun, irrigidita dal gelo, la vegetazione spenta in un terreno scuro e stremato. Due milioni e mezzo di proiettili tedeschi si rovesciarono sui soldati francesi che nel ventre dei forti e delle trincee, istupiditi dal terrore, aspettavano. Il tritacarne di due anni di guerra avevano già spazzato via una generazione di giovani veterani, erano rimasti in pochi a ricordare con stupore i primi giorni di guerra quando «i poilus» erano andati in battaglia con i pantaloni rossi, le bandiere ben in vista, con gli ufficiali che prima di andare all'assalto passavano il filo delle spade sul fuoco perché brillassero meglio al sole. Che rapporto c'era l tra quella «bella» guerra ottocentesca e quel meccanico, industriale massacro? Adesso il nemico era a miglia di distanza, non erano uo¬ mini, ma mostri di l'erro lucen te: cannoni da 420 Krupp o mostruosi obici navali da 380 Si sentiva un ruggito e poi centinaia di uomini, afferrati da una mano intrisa di acciaio e dinamite, venivano stritolali, mescolati alla terra. Il coraggio non era più l'assalto in file ordinale cantando la Marsigliese. Era stare immobili in un rigagnolo puzzolente, pieno di acqua, di escrementi, da dove t)gni tanto affiorava uno scheletro o il frammento straziato di un commilitone. La guerra di massa, industriale, meccanica è entrata così nelle cronache del mondo. L'aereo La notte di Grozny era fredda e serena. Ma i piloti avevano scello egualmente i missili a guida radar. I radar a emissione continua, piazzati alle estremità delle ali, avevano già agganciato il bersaglio: si premeva leggermente su un pulsante e il gigantesco missile «Acrid» faceva da solo il suo mortifero lavoro. Se mancava il bersaglio di poco, una spoletta di prossimità faceva egualmente esplodere la testata. Cosa succedeva tra la polvere e il fumo, là sotto, dentro gli scheletri di una città squartata, i piloti non potevano saperlo. Dopo pochi minuti erano al caldo nei loro ricoveri, a raccontare come i Mig funzionavano alla perfezione. Era l'ultima guerra del millennio. Strana, anonima, lontana: per loro il fronte, la zona del combattimento era un'astrazione come l'atto di uccidere personalmente l'avversario. I ceceni, a loro volta, non vedevano mai il nemico, una scia velocissima nel cielo, onnipotente imprendibile come un dio adirato. Quei soldati che schiacciavano il bottone dei missili erano impermeabili al rimorso: i bambini, i vecchi uccisi, i bersagli sbagliati, le case, gli ospedali annientati non esistevano se restavano invisibili. Come sentirsi colpevoli se l'atto dell'uccidere era l'ultimo gesto di una catena di meccanismi materiali complessi? Ognuno partecipa solo a un frammento del delitto. Alla fine non esiste responsabilità. Il guerriero infine è scomparso. Resta solo un piccolo assassino. Dall'eroismo individuale ai conflitti di massa, dove le battaglie sono diventate anonime aziende di morte agli ordini di freddi direttori-manager-amministratori .1 generali spesso combattono con lo sguardo rivolto al passato: ad Azincourt gli arcieri sgominarono la cavalleria pesante francese e fu la fine di un'epoca % meno 1 L J Jo K O K La battaglia di Valmydel 20 settembre 1792: fu la prima, clamorosa vittoria degli eserciti della Francia rivoluzionaria

Persone citate: Krupp, Rupert Scipio Von Lentulus, Strana

Luoghi citati: Azincourt, Francia, Grozny, Parigi, Roma, Verdun