Sommersi e salvati dalle poesie

Sommersi e salvati dalle poesie Continua il conto alla rovescia verso il nuovo Millennio, diciannove giorni al Duemila Sommersi e salvati dalle poesie IL Novecento e un secolo ricchissimo di poesia: ce n'ò per tutti i gusti. Trovare dieci testi belli e rappresentativi, dunque, è insieme facile e difficilissimo. Facile per l'abbondanza, difficilissimo per la scelta, inevitabilmente arbitraria. Meglio allora affidarsi con fiducia alla memoria, interrogarla con impazienza e trascrivere titoli e autori delle prime grandi poesie che vengono in mente. In realtà me ne sono venute in mente ben più di dieci, e molte di stranieri. Poi, per semplificare le cose e darmi un criterio, ho deciso di limitarmi alle italiane, anche per evitare l'imbarazzo della traduzione, che per quanto buona funziona sempre a metà. E ne ho lasciata una sola per autore, per dare campo a più voci. Nessuna intenzione, comunque, di fare un'antologia ideale, di gettare le altre dalla torre, di fare le solite stupide classifiche. Queste dieci, comunque, sono sicuramente bellissime e importanti, e ci dicono quale meraviglia di pensiero e immagini può ancora darci la poesia più di ogni altra cosa. Maurizio Cucchi Arsenio ili Eugeni» Montale, da «Ossi di seppia» (2"ed.l928) / turbini solici 'ano la //oli vie sui tatti, a unii inaili, a siigli spiazzi (laserii, ài v i cavalli incappucciati annusano la terra, farmi innanzi ai retri luccicanti dagli alberghi. Sul corso, infaceta al mare, tu discendi /in questo giorno or piotiamo ora accaso, in cui par scatti la sconvolgerne l'ore Uguali, strette in trama, un ritornello Idi castagnette. r. il sagno d'un 'altra orbita-, tu seguilo. Discendi all'orizzonta che soi Tasta una tromba di piombo, alta suigorghi, più d'essi vagabonda: salso nembi} vorticante. soffialo dal riballe elemento alle nubi; fa che il passo su la ghiaia ti scricchioli a t'inciampi il viluppo dall'alghe, quell'istante è forse, molto atteso, che ti scampi dal finire il tuo viaggio, anello d'una catena, immoto andare, oh troppo noto delirio, Arsenio, dimmobilità... Ascolta tra ipalmizi Ugello tremulo dei violini, spento (piando rotola il tuono con un fremer di lamiera percossa; la tempesta è dolce quando sgorga bianca la stella di Canicola nel cielo azzurro e /unge par la sera eh e prossima: sa il fulmine la incide dirama come un albero prezioso entro la luce che s'arrosa. a il timpano dagli tzigani è il rombo silenzioso. I )ist audi in mazzo al buio che precipita e muta il mezzogiorno in una notte di globi accesi, dondolanti a riva, e fuori, dove un 'ombra sola tiene mare e cielo, dai gozzi sparsi palpila l'acetilenefii ichà goccia trepidi > il cielo, fuma il suolo che s'abbevera, tutto d'accunto ti sciaborda, sbattono le tenda molli, un fruscio immenso rade la lana, giù s'affloscianostridendo le lanterna di carta sul/a strada. Cosi sperso tra i i •imini a le stuoia grondanti, giunco tu che la radici con sé trascina, viscida, non mai svelte, tremi di vita >• ti protendi a un vuoto risonante di lamenti soffocali, la tesa ti ringhiotle dell'onda antica che ti volga, e ancora tuttoché li riprende, strada portico mura specchi ti figge in una sola ghiacciata moltitudine di morti, e se un gesto ti sfiora, una parola ti cade accanto, quello è forse. Arsenio, iteli V >ra che si scioglie, il canno d'una l'ita strozzata par ta sorta, a il l'culo la porta con la cenere degli astri. Questa poesia, scritta nel 1927, è il cuore del nostro Novecento poetico. C'è un personaggio, un breve racconto, una riflessione sul (non) senso dell'esistere. C'è una tensione che cogliamo nel vorticoso movimento narrativo del testo, nel suono dei violini, nella vista di quei -cavalli incappucciati» davanti ai «vetri luccicanti degli alberghi», nei colon lividi di un'atmosfera resa instabile e minacciosa dall'arrivo dei temporale. Nulla di realmente tragico, in fondo: però com'è incapante l'inquietudine, e quell'attesa di un varco che ci liberi dal vuoto degli atti quotidiani, che ci proietti in «un'altra orbita». Trieste di Umberto Saba, da «Trieste e una donna» (1910-1912) nel «Canzoniere» Ilo attraversata tutta la città. Poi ho salita un 'erta, [xjpolosa in principio, in là deserta, chiusa da un muricciolo: un cantuccio in cui solo siedo; e mi pare che dove esso termina termini la città. Trieste ha una scontrosa grazia. Sa piace, è come un ragazzaccio aspro e vorace, con gli occhi azzurri e mani troppo grandi par regalare Un fiore; come un amore con gelosia. Da quasi 'erta ogni chiesa, ogni sua via scopro, se mena all'ingombrata spiaggia, 0 alla collina cui, sulla sassosa cima, una casa, l'ultima, s'aggrappa, intorno circo/a ad ogni cosa un 'aria strana, un 'aria tormentosa, l'aria natia. Ixt mia città che in ogni parte è viva, ha il cantuccio a ma fatto, alla mia vita pensosa a schiva. Una passeggiata in otta, una città paragonata a un «ragazzaccio aspro e vorace», una otta che possiede una «scontrosa / grazia» (che efficacia e importanza nella semplice pausa di quella capo, che rendo più vistoso l'inconsueto accostamente1). Una lirica trasparente ma anche ambigua, ricci infatti di contrasti interni (la otta è «popolosa» e poco oltre «deserta». l'«amore» è «con gelosia»), i contrasti che sono quelli dell'anima del poeta, che definisce «tormentosa» «l'aria natia», ma che ammira la vivacità di Trieste. La vita è ricordarsi di un risveglio di Sandn > Penna, da «Poesie» (1939) Ut vita... è ricordarsi di un risveglio triste in un treno all'alba, aver veduto fuori la luce incerta: aver sentito nel corpo rotto la malinconia 1 viglile e aspra dell aria pungente. Ma ricordarsi la liberazione improvvisa è più dolce: a me vicino un marinaio giovane-, l'azzurro e il bianco della sua divisa, e fuori un mare lutto pesco di colore. La magia di Sandro Penna riesce a farcantare la concretezza delle cose e la forza delle impressioni. Risvegliarsi in un treno, sentire il torpore del proprio «corpo rotto», vedere un marinaio e il colore «fresco» del mare. Nessuno come lui ha saputo esprime una «strana» e malinconica gioia di vivere. Nessuno come lui ha saputo esprimere con tanta grazia naturale il senso profondo che è nella realtà semplice. Da Giorno per giorno ili Giuseppe Ungaretti, da -Il dolore» (1947) /. 'Nessuno, mamma, ha mai sofferto lauto...» EU volto già scomparso Magli occhi ancora vivi Dal guanciale volgeva alla finestra, E riempivano passeri la stanza Verso la briciola dal babbo sparse Per distrarre il suo bimbo... 2. Ora potrò baciare solo in sogno Le fiduciose mani... li discorro, lavoro, Sono appena mutato, tremo, fumo... Come si può ch'io regga a tanta notte?... 3. Mi porteranno gli anni Chissà quali altri orrori, Ma ti sentivo accanto, M'avresti consolato... 4. Mai, non saprete mai come m'illumina L'ombra che mi si pone a lato, timida. Quando non sparo più... 5. Ora dov'è l'ingenua voce Che in corsa risuonando per le stanze Sollevava dai crucci un uomo stanco?... La terra l'ha disfatta, la protegge l hi passato di favola... Sono queste le pnrne cinque delle diciassette parti di cui si compone "Giorno per giorno", il componimento più importante del "Dolore", il libro che Ungaretti pubblicò nel 1947. Fa impressione la capacità che ha il poeta di comunicare la violenta emozione, lo strazio per la morte del figfo. in modo così netto e limpido, con parole come «bimbo» e «babbo» che acquistano intensità drammatica, con quei due settenan così umili e vivi nel dire la pena della (jerdita e la verità del sentimento («Ma ti sentivo accanto, / M'avresti consolato... »), accanto ad accenti di tono più elevato. Una commozione lucida che arnva al lettore come una serie di stilettate. Non sa più nulla, è alto sulle ali, di Vittorio Sereni, da «Diario d'Algeria» (1947) Non sa più nulla, è alto sulle ali il primo caduto bocconi sulla spiaggia [normanna. Per questo qualcuno stanotte mi toccava la spalla mormorando di pregare per l'Europa mentre la Nuova Armada si presentava alla costa di Francia. Ilo risposto nel sonno... - E il vento, il vento che fa musiche bizzarre. Ma se tu fossi davvero il primo caduto bocconi sulla spiaggia Inonnanna prega tu se lo puoi, io sono morto alla guerra e alla pace. Questa è la musica ora. delle tende che sbattono sui pali. Non è musica d'angeli, è la mia sola musica e mi basta. - Il «Diano d'Algeria» di Vittorio Sereni è uno di quei libri che dovremmo tenerci sempre accanto, o in tasca. È stupefacente come questo poeta sia nuscito a trattare una materia pesantissima, drammatica e tragica, come la pngionia e la guerra, con totale assenza d'enfasi, con una naturalezza di verità senza la minima sottolineatura. E come risuona cupo e risentito quel dirsi estraneo per forza, «morto / alla guerra e alla pace», come espulso dalla storia, mentre avviene qualcosa che è storicamente di decisiva importanza. Versi d'Ottobre di Mario Luzi, da «Onore del vero» (1957) È qui dove vii anelo si produce ombra, mistero par noi, per altri che ha da coglierne e a sua [volta ne getta il seme alle sue spalle, è qui non altrove che deve farsi luce. È passata, ne resta appena traccia l'età immodesta e leggera quando s'aspetta che altri, chiunque sia, diradi queste ombre. Quel che vena vena da questa pena. Siedo presso il mio fuoco triste, attendo finché nasca la vampa piena o il guizzo sul sarmento bagnato della fiamma. Tu che aspetti da fuori della'casa, della luce domestica, del giorno? oggi, oggi che il vento balza, corre nell'allegria dei monti e a quell 'annuncio di l'ino e di freddi la furbizia dei vecchi scintilla tra le grinze? Quel che vena, vena da questa pena. Altra sorte non spero mai, neppure sotto il cielo di questo mese arcano che il colore dall'uva si diffonde e l'autunno ci spinge a viva forza fino ai Cessati Spirili o al Domine quo vadis? Nella musica volutamente opaca, nei toni assorti di questa poesia, Mario Luzi ci dice che la stessa vita non può nascere che dalla morte, che la stessa gioia sgorga dal suo opposto, dal dolore e dalla sofferenza, di cui cristianamente assume tutto il valore. E dunque, nell'ombra e nel mistero in cui siamo immersi, dobbiamo capire: «Quel che verrà verrà da questa pena». È questo il messaggio pronunciato e npetuto dal poeta come per bocca di un personaggio anonimo che occupa una scena autunnale, nella quale appaiono alla fine i nomi - quasi liturgici - di località vicine a Roma. Fuisse di Andrea Zanzotto, da «Vocativo» (1957) Pace pari <oi par me buona gante senza più dialetto, senza pallida grandini di ieri, senza luce di vendemmie, pace propone e supremo torfxjre l'alone dei prati di cinta originaria dei colli la rosa dispersa il sole che morda tra le tombe. Ab la cicuta e il poco formicolio, non più, colà sepolto. /Mj l'acqua troppo tenue che mi cola oltre la gola egli occhi e di là s'invischia in tiepidi miseri specchi su cu il'ortica insuperbisce. Ed ah, ah soltanto, nei modi obsoleti di umili viigili, di pastori castamente avvizziti nei libri, nella conscia terrena polvere, ah ripeto io versato nel duemila. Ah risuona il colloquio in eterno sventato, dovunque io passi, ovunque, l'aria mai sfebbrata mi sospinga, la selva m'accompagni e impari la vicenda non umana del mio fuisse umano. Futura età, urto di pietra sulfureo sangue che escludi che inintelligibili fai questi fiori e gridi ed amori, non-uomo mi depongo ad attenderti senza nulla attendere, già domani con me nel mio fiusse, pieghe tra pieghe della terra cieca ad ogni tentazione d'alba. Fuisse, e dunque «essere stato», è un testo di verticalità febbrile, internamente come sgretolato. Ha la tensione di un lucido delirio lirico che si imposta su una dolorosa constatazione: non esiste più una lingua che realmente ci appartenga. Ed è un lamento, quasi ndotto a pura voce («Ah»), che si proietta dentro un futuro che per noi, oggi, è già quasi presente. E l'elegia di un poeta che sente l'impossibilità dell'elegia stessa e di un canto condotto secondo una tradizione che ama, ma che è già affondata nel passato. Della mia vita in un certo giorno di Antonio Porta, da «I rapporti» (1966) 'Della mia vita, in un certo giorno, non seppi più nulla, soltanto quello che rivelò il barbiere domandando dei miei figli e m'accorsi di non averne mai saputo, guardandomi bene negli occhi sopra la schiuma e i riflessi del rasoio. Uscii e impolverai le scarpe tra le pietre, e proseguii, le stringhe slacciate, sulla via di casa, il gocciolìo del sudore: entrando qualcosa accadde, non ricordo; dietro il portone, immobile tra i cristalli, l'ostilità di mia moglie e mi chiesi chi era. Per togliere la polvere, chinato, si recidevano le stringhe, la fronte mi sanguinava, tra i cristalli spezzati, le stringhe tra i capelli, e premevo, frugando tra le schegge, scrivendo nella polvere, la lingua misi tagliava, lambendo, il sangue colava dagli occhi, sulle [tempie, ifigli non sanno nulla... » Un racconto di violenza e assurdità, che ha un felicissimo attacco: il soggetto è divenuto talmente estraneo a se stesso che sa di se stesso solo ciò che gli dice un estraneo, il barbiere. Una poesia racconto (che fa parte di una sezione intitolata «Rapporti umani») ricca di dettagli concreti, e che si presenta come un pezzo di film, come una scena staccata da ciò che precede e segue: lasciata aperta a ogni spiegazione, abbandonata al ritmo affannoso, incalzante in cui precipita il personaggio. Lasciami sanguinare di Attilio Bertolucci, da «Viaggio d'inverno» (1971) Lasciami sanguinare sulla strada sulla polveresull'antipolveresull'erba, il cuore palpitando nel suo ritmo feriale maschere verdi sulle case i rami di castagno, i freschi rami, due uccelli il maschio e la femmina volati via, la pupilla duole se tenta di seguirne la fuga l'amore per le solitudini aria acqua del Bràttea, non soccorrermi quando nel muovere il braccio riapro ta ferita il liquido liquoroso m'inorridisce la vista, attendi paziente oltre la curva via l'alzarsi del vento nel mezzogiorno, fingi soltanto allora d'avermi udito chiamare, entra nella mia visuale da un giorno quieto di settembre, la tavola apparecchiata i figli stanchi d'attendere, i figli giovani col colore della gioventù esaltato da una luce che quei rami [inverdiscono. Ecco il senso del proprio perdersi, nella metafora del «sanguinare». E questo sgocciolare di sé è riprodotto con piena onginalità, con grande efficacia, dallo sgocciolare materico delle parole sulla pagina. La poesia, infatti, si sviluppa tutta su un unico, lunghissimo periodo, costruito su una serie di richieste («lasciami sanguinare», e poi «non soccorrermi», «attendi paziente» ecc.). Si intravede una vicenda familiare, si resta colpiti dalla capacità che ha Bertolucci di coniugare angoscia e sofferenza con immagini vitali, come nello splendido finale sui figli e i colon della gioventù. Amen di Giovanni Raboni, da «Cadenza d'inganno» (1975) Quando sei morta stavamo in una casa vecchia. L'ascensore non c'era. C'era spazio da vendere per pianerottoli e scale. Dunque non t'è toccato di passare di spalla in spalla per angoli e fessure, d'essere calcolata a spanne, raddrizzata nel senso degli stipiti. Sparire era più lento e facile quando tu sei sparita. Parecchie volte, dopo, mi è sembrata una bella fortuna. Eppure, se ci pensi, in poche cose c'è meno dignità che nella morte, meno bellezza. Scendi a pianterreno come ti pare, porta o tubo, infilati dove capita, scatola di scarpe o cassa d'imballaggio, orizzontale o verticale, sola o in compagnia, liberaci dall'estetica e così sia. Giovanni Raboni ha saputo inventare una lingua poetica che si «sporca» con la prosa, che la rasenta di continuo, ma che mirabilmente riesce a tenersene staccata. Qui dice con fermezza il dolore per la scomparsa della madre, e l'aspetto gelido, ordinario, persino squallido che accompagna anche i momenti più gravi. E introduce nella desenzione, che spesso dà i brividi per la sua verità impietosa, un paio di sentenze indimenticabili: «in poche cose / c'è meno dignità che nella morte» e poi, sigillo finale: «liberaci dall'estetica e così sia». Dieci liriche scelte a memoria, a cominciare da Arsenio di Montale, dove si descrive l'attesa di chi vuole fuggire dalla quotidianità Meraviglie di immagini e di pensiero di Saba, Penna, Ungaretti, Sereni, Luzi, Zanzotto, Porta, Bertolucci e Raboni IL PERSONAGGIO BEATRICE L'ultima Beatrice della letteratura è Rei Toei, star virtuale. Sei secoli dopo l'invenzione della donna angelicita e la comparsa della creatura dantesca, il processo di smaterializzazione della donna ispiratrice è concluso: il personaggio di «Aidoru» cyber-romanzo di William Gibson - è nient'altro che la vibrazione di un ologramma. Slancio d'amore o beffa antifemminista? SOGGETTO LA PENNA Non serve più, quindi sarebbe perfetta per i poeti. Ma anche loro - quasi tutti - ticchettano sul pc. Il computer permette virtuosismi compositivi negati da carta e penna. Eppure - per la felicità del suo inventore, l'ottocentesco Mr. Waterman - le Muse si fanno sentire anche quando il video non è a portata di mano. Allora, una penna fa la differenza. IL CIBO L'ASSENZIO Picasso gli ha dedicato una scultura, nel 1914: «Bicchiere d'assenzio». Liquorino per anime disperate e, perciò, anche per uomini di lettere. I quali si sono buttati nel'alcol e nelle droghe per percepire il tocco elusivo di Dioniso: si chiamavano Bulgakov, Benjamin, Lawrence, Cocteau, Huxley.Junger... schede a cura di GABHIELE BECCARIA 1000/2000 UNA GENERAZIONE AL GIORNO LA GRANDE OPERA Questa è la storia di Nicolas Finnici e di sua moglie Perrel, vissuti nel primi del 1400 - all'inarca la tredicesima generazione a partire dall'anno Mille - e simbolo per i giovani alchimisti dell'epoca. Quando si sposarono, lei era vent'anni più grande di lui, ma non mancò di seguire, con l'entusiasmo di una ragazzina, gli esperimenti del marito. Dopo anni di esperimenti Flamel riuscì a portare a termine la Grande Opera: «Seguendo il libro di Abramo l'Ebreo a- annota sul suo diario - compii l'opera con la pietra al rosso sulla stessa quantità di mercurio. Ottenni una quasi uguale quantità d'oro puro, più malleabile dell'oro ordinario». Flamel era giunto dove nessun altro alchimista era mai giunto. Forse per questo, in armonia con le leggende sull'immortalità dei corpi, non si hanno notizie sicure sulla loro morte. C'è chi giura di averli visti aggirarsi nel lontano Oriente e chi sostiene di averli incontrati, nel 1818, a Parigi, mentre si recavano nella loro mansarda, in rue Clery. A cura di FRANCESCA SFORZA

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