Il ragazzo rossocontro Gorbaciov di Enzo Bettiza

Il ragazzo rossocontro Gorbaciov 1989, in un viaggio nell'Urss della perestrojka Giancarlo Pajetta getta in faccia ai notabili sovietici la sua delusione Il ragazzo rossocontro Gorbaciov Enzo Bettiza N~| ELLA seconda metà degli Anni Ottanta ebbi la rara occasione di vedere riflettersi, dentro gli occhi I smarriti di un leggendario dirigente comunista italiano, le trasformazioni e le derive della Cina e dell'Unione Sovietica. Quel personaggio storico, uno dei più popolari del vecchio Pei, era Giancarlo Paletta. La morte, che lo colse nel 1990, sembrò a molti quasi emblematica: il suo cuore s'arrestò infatti nei giorni stessi che cessava di battere quello del comunismo russo ed europeo. Pajetta, in un certo senso, ; non morì, ma si lasciò morire un anno dopo il crollo del Muro ed un anno prima del collasso sovietico'. Così, almeno, evitò l'impatto con quella che avrebbe certamente risentito come l'ultima e più grave delusione della sua esistenza: il trasloco del Pei togliattiano sotto la quercia del Pds di Occhetto. | Lo avevo conosciuto nel 1948 quando ricopriva, a Milano, «n'aita carica neÙ'organizza zions lombarda del partito. 11 Pajetta d'allora si dava 0 tono di un comunista scolpito a tutto tondo nel granito, un comunista «perinde ac jeadaver», come amava dire di sé stesso parafrasando l'iperbolico motto funereo di Ignazio da Lojola. Ma la sostanza dell'uomo era un poco diversa dall'apparenza del mihtante affascinato dalla disciplina cieca e castrense della Compagnia di Gesù. Sotto il cilicio del bolscevico inossidabile Pajetta, probabilmente, cercava di occultare un'indole non tutta bolscevica, di fondo piuttosto eterodosso e ribelle. L'anarcoide represso, che covava in lui, veniva a galla nelle invettive al fulmicotone del tribuno insolente, nelle rasoiate istantanee del polemista, negli esercizi maneschi del parlamentare rissoso. Le proverbiali intemperanze di Pajetta, che non risparmiavano gli infedeli e talora si abbattevano senza pietà anche sui compagni in odore di eresia, s'arrestavano di colpo solo davanti al pantheon della grande madre rivoluzionaria: la mummia invulnerabile di Lenin, quella di Stalin intoccabile fino al 1956, il mito dell'invincibile Armata Rossa, perfino il valore dell'imbattibile squadra di calcio Dinamo. La fedeltà incondizionata al «vincolo di ferro» con l'Urss era il pedaggio che la sua natura, ùltimamente trasgressiva, si sforzava di tributare a tutti i costi alla convenzionale mistica comunista. Una volta proclamò in pubblico: «Se la menzogna serve alla rivoluzione, io servirò la menzogna rivoluzionaria contro le insipide verità borghesi». Da tanto fanatismo, proprio perché spinto fino al paradosso, promanava un che di sospetto. Si trattava, chiatti, del fanatismo eccessivo di chi, per difendersi dai morsi della propria intelligenza, la sacrificava e umiliava scientemente sull'altare degli dei falsi e bugiardi Non si poteva neanche asserire che la sua fosse un'intelligenza naturale ma culturalmente limitata, priva di cognizioni e di capacità comparative. Tutt'altro. Nelle prigioni fasciste Pajetta era diventato un lettore onnivoro e sistematico, aveva studiato il tedesco, perfezionato il francese, approfondito il russo. Ma, pur di non esercitare la cultura e la ragione sui tumori del comunismo, le co n dannava al letargo di prolungate anestesie irrazionali. Questo il personaggio a luci ed ombre alternate, il rivoluzionario contraddittorio e inquieto con indosso l'uniforme del comunista tutto d'un pezzo, che conobbi nei tempi remoti del mio giovanile morbillo comunista. Allora lui comandava ed io eseguivo. Passarono alcuni decenni finché, quando meno me l'aspettavo, ci ritrovammo un giorno a Strasburgo in una situazione, se non proprio invertita, alquanto modificata protocollarmente: ci rivedemmo infatti nell'ambito delle delegazioni per i rapporti con la Cina e con l'Urss, delegazioni di cui io ero il presidente liberale e Pajetta im indisciplinato e insofferente membro comunista. Il nostro singolare rincontro in Alsazia, del tutto inatteso dopo tanti anni, in veste di europa rlamentari viaggianti, evocava alla sua maniera uno di quei risolutivi eventi chiave che scioglievano a sorpresa le trame dei romanzi d'appendice ottocenteschi. La vita nel nostro caso era stata altrettanto sorprendente e inventiva. Chi mai avrebbe potuto immaginare che sarei giunto nel 1986 a Pechino, poi nel 1989 a Mosca, in compagnia di un Giancarlo Pajetta stordito dalle iniziative neocapitaliste di Deng Xiaoping e sempre più sconcertato dai colpi destabilizzanti che Gorbaciov andava infliggendo all'impe- ro? I suoi scatti di insofferenza in seno alle delegazioni si spiegavano meglio sullo sfondo di un'epoca crepuscolare, da «fine della storia», tutta intenta a promuovere la metamorfosi liberista del comunismo cinese e a distillare i velem per l'eutanasia del comunismo sovietico. L'incubo del grande crepuscolo, in cui stava scomparendo l'universo fondato da Lenin, sembrava riverberarsi perfino nell'aspetto fisico di Pajetta. Non v'era quasi più traccia del quarantenne d'una volta, flessuoso, scattante, irridente, sempre pronto a zittire e sfregiare gli avversari con i sarcasmi più crudeli. Appariva prosciugato nel corpo, sperduto nello sguardo, malandato d'umore e di salute. I viaggi che per incarico del Parlamento facemmo insieme in Cina e in Russia furono, per Pajetta, autentici viaggi al termine della notte. Ricordo che a Pechino, nel maggio dell'86, il suo malumore, già esasperato da tante novità che non gli erano piaciute, toccò improvvisamente il culmine provocando quasi un incidente diplomatico. Nel pomeriggio avevamo avuto un incontro con un personaggio importante: il viceministro degli Esteri che aveva negoziato e firmato, appena da qualche settimana, gli accordi con Londra sulla restituzione di Hong Kong alla Cina, il ministro, nel corso delle conversazioni, aveva ad un certo punto espresso alcune severe osservazioni critiche nei confronti della politica indocinese dell'Urss. Allora Pajetta, prendendo le difese di Mosca, era intervenuto nella conversazione con foga estemporanea e con eccessiva veemenza polemica. I dignitari e funzionari cinesi erano rimasti di stucco e, morbidamente, avevano accelerato la conclusione della seduta. Come se non bastasse, Pajetta aveva poi aggravato la situazione rifiutando di partecipare alla cena ufficiale offerta alla nostra delegazione dal presidente dell'Assemblea popolare; i cinesi, che conoscevano da tempo il dirigente comunista italiano, si erano molto inquietati. Alla fine della cena, dopo i brindisi di circostanza, mi avevano domandato allarmati se l'assenza di Pajetta fosse dovuta a motivi di salute. Dissi di sì non sapendo che altro dire. Al rientro nella residenza, messaci a disposizione dalle autorità pechinesi, trovai nel vestibolo Pajetta che camminava su e giù con aria contrita e costernata. Si sarebbe detto che mi aspettasse per chiedere scusa dei disagi che il suo comportamento, che volle definire «irregolare ma giusto», stava procurando alla nostra missione. Ammetto che mi fu diffìcile trovare le parole idonee per rispondere a quelle sue scuse reticenti. Captavo i subbugli deuu sua mente e del suo animo amareggiati. Mi sforzai di non pensare ai tempi in cui assentivo in silenzio ai suoi ordini, poi lo redarguii con una certa ruvidezza, dicendogli che avrebbe potuto riparare all'inutile polemica col viceministro partecipando almeno alla cena protocollare. Si confuse, si contorse, prese a balbettare qualcosa d'incomprensibile. In "ine non riuscì più a tenere a freno la lingua, schiarì la voce ed esclamò fuori di sé: «Che ce ne frega di tutti questi gialli antisovietici viscerali?». Ribattei: «Ma, a noi, che ce ne importa se sono antisovietici, antigiapponesi o antiamericani? L'importante è che siano fuoeuropei». Al che Pajetta mi sogguardò di sghembo e s'illuminò in un sorriso sarcastico: «Sentilo, il cinico. Com- £limerai : si vede che vieni da una uona scuola». Un momento rivelatore in quel nostro strano rapporto postumo, riannodatosi dopo quarant'anni fuori da ogni schema e obbligo di partito, fu quello in cui venni nominato presidente della delegazione per ì rapporti con l'Unione Sovietica. Nomine del genere dovevano passare al vaglio e all'approvazione maggioritaria dei vari gruppi politici dell'Europarlamento. Per la nuova carica, la più delicata fra quelle ricoperte fino allora, ottenni anche il consenso del gruppo comunista guidato dal Pei: uno dei principali sostenitori dell'investitura era stato proprio Pajetta, che dovevo ritrovare, ancora una volta, fra i membri della delegazione per l'Urss. Nel frattempo s'era quasi affezionato alla mia persona: mi telefonava sovente, m'invitava al suo ufficio a Botteghe Oscure, si dava da fare per facilitare la visita della delegazione a Mosca e a Leningrado. L'Urss, per volontà di Gorbaciov, che ormai inneggiava alla «comune casa europea», aveva da poco legittimato diplomaticamente l'istituzione transnazionale di Bruxelles. Pajetta, al quale il partito riconosceva ancora il ruolo di responsabile degli affari intemazionali, si rendeva conto dell'importanza simbolica che avrebbe assunto l'approdo di una prima missione europea al Cremlino. Ma si rendeva ben conto, altresì, dell'impatto negativo che il viaggio in quella Russia pericolante, ormai inclinata sull'abisso, avrebbe prodotto su di lui Tutte le informazioni che in quel periodo giungevano da Mosca lo ferivano e lo prostravano. La mi ero pere strojka, che non riusciva ad intac- care le strutture portanti dell'economia collettivizzata, favoriva soltanto la diffusione di cosche mafiose e di piccole e irrilevanti attività private. La macroglasnost invece scardinava miti e credenze del comunismo russo, infangava la memoria di Lenin, affossava per l'ennesima volta Stalin, scoperchiava scheletri e orrori di un sistema che del fallimento sembrava aver fatto per settant'anni la propria essenza. Inoltre, a differenza che nella Cina di Deng, dove la perestrojka funzionava senza glasnost, nella Russia di Gorbaciov la glasnost sopraffaceva la perestrojka minacciando di disintegrare tutto: il partito, lo Stato, la polizia, il mosaico delle Repubbliche e delie nazionalità. Dalla campagna necrotizzata fin dagli Anni Trenta, che nessuno osava restituire alla proprietà privata, non giungeva segno di resurrezione. Il riformismo gorbacioviano girava insomma a vuoto; non metteva radici, non spostava i macigni morti del sistema, diffondendo soltanto malessere e angoscia nelle masse allo sbando. Fu su tale sfondo che incomin- ciò e si svolse, sotto i miei occhi, l'ultima e dolorosa visita di Pajetta a Mosca. Era il febbraio del 1989, l'anno di inizio dei crolli a catena. Giungemmo con la delegazione in un mondo russo che appariva disorientato e distratto da preoccupazioni mille miglia lontane dail Europa. Negli incontri con l'omologa delegazione sovietica, guidata da Vadim Zagladin, membro del Comitato centrale e consigliere stretto di Gorbaciov, io cercavo di riprendere e rilanciare il concetto esortativo della «casa comune». Ma le mie parole sembravano svuotarsi al contatto con le questioni che ci poneva la controparte. La quale, in sostanza, tentava di allarmarci dipingendo un quadro pessimistico della situazione e ripetendo continuamente che l'economia sovietica non si poteva riformare senza un sostanzioso aiuto finanziario dell'Occidente. Pajetta non interveniva. Non ascoltava. Si soffregava la fronte, come incalzato da altri pensieri ossessivi. Era nervosissimo, irritato da tutto ciò che vedeva per le strade e leggeva nei giornali. Quando dalle riunioni tornavamo all'albergo, prendeva chissà perché a litigare in russo con i camerieri e i portieri. Mi trascinava ogni sera a mangiare nelle «cooperative», cioè nei primissimi ristoranti privati, dove la perestrojka sembrava rivelare come in vitro tutta la sua pochezza: bisognava pagare il conto iti dollari e portarsi la bottiglia di vino da fuori, dalla dispensa di qualche diplomatico o giornalista amico. Niente funzionava per intero, tutto funzionava per metà. Pajetta appariva insieme incredulo e sdegnato dall'irruzione di quelle privatizzazioni stentate e primordiali nel sacrario della rivoluzione mondiale. Una sera, con un ghigno cattivo, mi disse: «Vedrai che fra poco, per arrangiarsi a sopravvivere, venderanno al museo delle cere di New York anche la mummia di Lenin». n giorno seguente fummo ricevuti al Soviet Supremo dal presidente Lukianov, considerato il numero due del regime, lo stesso che nell'agosto 1991 si sarebbe trovato fra i principali istigatori del golpe contro Gorbaciov. Presenti Zagladin e Dobrinin, il famoso ex amba¬ sciatore a Washington. Era il momento forte della visita. Io dovevo consegnare a Lukianov ;ina lettera con cui Lord Plumb, allora presidente del Parlamento europeo, invitava Gorbaciov a visitare la nostra assemblea a Strasburgo. Tutto ad un tratto, proprio nell'istante che stavo per alzarmi dal lungo tavolo affollato per porgere a Lukianov la missiva e fare un breve discorso, vidi Pajetta impallidire violentemente e lanciarmi un cenno quasi disperato. Voleva prendere la parola contro ogni regola protocollare. Dipendeva da me se farlo parlare o meno. Dalla sua taccia tesa capii che, se anche gli avessi negato la parola, lui se la sarebbe presa di prepotenza, provocando forse un disastro peggiore di quello che stava per provocare. Allorché con un cenno della testa gli diedi il via, Pajetta, infrangendo il rigoroso cerimoniali', si rivolse ai maggioren ti sovietici allibiti col tono del vecchio comunista a collo quio con vecchi co munisti. S'infilò immediatamente in una filippica contorta contro tutto ciò che accadeva in Russia, con un timbro di voce e un proflu vio di concetti di volta in volta tragici, accusatori sarcastici, amari irritati. Aveva de ciso di parlare non in russo ma in francese Lukianov, che della traduzione afferrava confusamente il senso già confuso di quelle parole intinte nel dolore di una vita tradita, 10 ascoltò fino in fondo con un'impenetrabile faccia di marmo. I sovietici più giovani sembravano non capire assolutamente nulla. I membri della mia delegazione, inglesi, francesi, tedeschi, spagnoli, olandesi, eccetera, mi scagliavano occhiate risentite e interrogative come a rimproverarmi: perché mai hai dato la parola al folle? Loro non potevano capire. Soltanto io potevo sapere che, pur nelle sue contorsioni e nei suoi balbettii, era tutt'altro che lo sproloquio di un folle. Era l'ultimo urlo esistenziale del «ragazzo rosso» in terra sovietica. Mi è difficile ricordare e riassumere tutto quello che allora egli gettò in faccia ai notabili russi che lo fissavano immoti, ma 11 senso era su per giù questo: «Voi continuate a parlare delle pagine bianche della vostra storia che è stata anche la nostra storia di comunisti fedeli all'Urss. Ma non sono bianche; sono nere ed insanguinate. Io ho dedicato tutta la mia vita a sfogliare come un cieco queste vostre pagine che ritenevo immacolate e giuste. Dovevate aspettare la glasnost per aprirmi gli occhi? Per dirmi come stavano veramente le cose? Per informarmi che Bucharin non era una sporca spia ma quasi una vittima del nazismo?». Finita l'imbarazzante seduta. Pajetta, bruscamente, m'informò che non avrebbe proseguito con la delegazione per Leningrado : avrebbe interrotto in giornata il viaggio e sarebbe rientrato in Italia. «Abbiamo un raduno a Modena a cui non posso mancare». Fu l'ultima pietosa bugia detta a se stesso da un Pajetta che, in realtà, era già avviato al viaggio senza ritorno che lo avrebbe inghiottito un anno dopo. S'infilò in una filippica contorta contro tutto ciò che accadeva in Russia con toni di volta in volta tragici, accusatori sarcastici, amari o irritati // senso di quell'urlo: «Dovevate aspettare la glasnost per aprirmi gli occhi? Per dirmi contestavano veramente le cose?» ntro iov Gorbaciov la glasnost raffaceva la perestrojka do di disintegrare tutto: tito, lo Stato, la polizia, elle repubbliche e delle onalità. Dalla campagna n dagli Anni Trenta, che uno osava restituire alla ta, non giungeva segno zione. A destra il leader in un disegno di Ettore tto Giancarlo Pajetta ciò e si svolse, sotto i miei occhi, l'ultima e dolorosa visita di Pajetta a Mosca. Era il febbraio del 1989, l'anno di inizio dei crolli a catena. Giungemmo con la delegazione in un mondo russo che appariva disorientato e distratto da preoccupazioni mille miglia lontane dail Europa. Negli incontri con l'omologa delegazione sovietica, guidata da Vadim Zagladin, membro del Comitato centrale e consigliere stretto di Gorbaciov, io cercavo di riprendere e di volta intragici, asarcastico irritati sciatore a Washmento forte delconsegnare a Lucon cui Lord Pdente del Parlamvitava Gorbaciostra assemblea aTutto ad un l'istante che stalungo tavolo affLukianov la mbreve discorso, dire violentemecenno quasi dispdere la parolaprotocollarme se farDalla suche, snegatosarebtenzun dqueproconstata,rorit Nella Russia di Gorbaciov la glasnost sopraffaceva la perestrojka minacciando di disintegrare tutto: il partito, lo Stato, la polizia, il mosaico delle repubbliche e delle nazionalità. Dalla campagna necrotizzata fin dagli Anni Trenta, che nessuno osava restituire alla proprietà privata, non giungeva segno di resurrezione. A destra il leader sovietico in un disegno di Ettore Viola. Sotto Giancarlo Pajetta