I prigionieri di guerra non hanno età di Giorgio Boatti
I prigionieri di guerra non hanno età I prigionieri di guerra non hanno età Fame, freddo, morte: i campi di concentramento nella prima guerra mondiale, premonizione dei Lager e dei nostri conflitti di fine secolo CI sono immagini sparse nel passato che, intraviste un po' frettolosamente, paiono disordinare l'ordito delle cronologie. Ouasi fossero calamitate da catastrofi successive, attratte verso tragedie simbolo del nostro tempo, fuggono via dal loro concreto luogo di provenienza, dal loro esatto tempo di appartenza. E quando lo si ricolloca nel loro originale contesto inquietano: come risuonasse in esse l'eco di una sinistra, inascoltata premonizione. Di un'elusione troppo a lungo protratta. Di questa premonizione si e pervasi guardando le immagini dei campi di prigionia del primo conflitto mondiale: qui - come scrive Antonio Gibelli ne «La grande guerra degli italiani» - «fa la sua comparsa la morte di massa i cui tratti tipici fissati dalle statistiche ma anche dai documentari fotografici e cinematografici, sembrano anticipare nei mucchi informi di cadaveri accatastati, nelle schiere spettrali di uomini rapati a zero, le immagini di annientamento dei campi di sterminio organizzati dai nazisti, talvolta nelle stesse località, venticinque anni dopo». Durante la grande guerra di italiani - finiti nei lager di Mauthausen e Sigmundsherborg in Austria, Theresienstadt in Boemia, Celle nell'Hannover, Tastati nel Badnn - se no contano oltre seicentomila. E ben centomila non sopravvivono ad un'esperienza dolorosissima dove la fame, il freddo, la disciplina stroncano gli italiani in maniera ben più ampia di quanto accada con i prigionieri provenienti da altri eserciti. Sono i numeri a parlare: come documenta lo storico Giorgio Rochat nel corso della grandi; guerra i prigionieri francesi caduti nello mani degli austro-tedeschi sono seicentomila, esattamente come gli italiani ma a perdere la vita, tra i soldati dell' Ari nòe sono ventimila (un quinto rispetto ai morti del nostro regio esercito). La situazione dei prigionieri di guerra, qualsiasi sia la loro nazione, in Germania e in Austria è pesante, condizionata da una situazione di difficoltà alimentari che colpisce duramente anche la popolazione civile. Il cibo - corno emerge dalle pagine del «Giornale di guerra e di prigionia» di Carlo Emilio Gadda, rinchiuso primo a Rastatt e poi a Celle e che pure, come ufficiale, ha diritto a un trattamento ben più favorevole di quello goduto dai soldati - è l'ossessione di ogni giorno: «Trangugiavo, divoratolo a morsi, l'esiguo pane: la solita fetta, un quinto, impastata di castagne d'India, dicevano, e poi di tritume di paglia, forse di segale. Questo quinto risultava da una divisione meticolosa della pagnotta: le cin- DA LEGGERE Antonio Gibelli La grande guerra degli italiani Sansoni, Milano 1998. Carlo Emilio Gadda Giornale di guerra e di prigionia Einaudi, Tonno 7965 Maria Antonietta Clerici Al di là del Piave, coi morti e coi vivi Editrice Omarini, Como 1919 que porzioni, tagliando, si misuravano per successivi confronti, cubandole la millimetro, soppesandolo al grammo... Poi si sorteggiavano i pezzi, con il tratto delle dita, o con la buschetta e ancora l'occhio e l'animo speravano, speravano: cercavano il pezzo che pareva maggiore, invidiandolo biecamente al fortunato compagno». Per far fronte all'inedia dei propri soldati, rinchiusi nei lager nemici, i governi di Francia o d'Inghilterra provvedono ad inviare con regolarità, attraverso convogli internazionali che transitano dalla Svizzera, quanto - oltre ai pacchi viveri spediti dallo famiglie - ò necessario per garantirne la sopravvivenza. Una misura che il governo italiano non adotta: anzi - come scrive Rochat - «il governo rifiutò di assumersi l'onere dell'invio regolare di viveri e ostacolò in più modi l'opera delle organizzazioni umanitarie, la spedizione di pacchi privati, addirittura il corso regolare della posta». In tante testimonianze e lettere di prigionieri e di internati emerge lo sconcerto nel sentirsi abbandonati dalla madrepatria. «Perché l'Italia non pensa a soccorrere maggiormente questo concentramento? Non so se essa giudichi immeritevoli tutti questi che avrebbero dovuto andare a lei, offrendo il loro braccio, allorché fu dichiarata la guerra o se l'opposizione venga da Vienna»: ad annotare questi pensieri nel proprio diario - uno dei testi più interessanti e ignorati sui campi d'internamente austriaci per civili «conniventi» col nemico - è una una bella figura di crocerossina comasca. Maria Antonietta Clerici. Infermiera volontaria della Croce Rossa Italiana stanziata nell'ospedale da campo 014 situato in località la Fredda, presso Perteole di Cervignano, a ridosso del fronte dell'Isonzo, viene fatto prigioniera assieme alle colleghe dopo la rotta di Caporetto. Il suo diario - semplice e vitale - offre la possibilità di guardare da un'angolazione femminile alla tragedia della guerra, alla realtà della prigionia. Nell'ospedale italiano irrompono già dai primi di novembre del 1917 le pattuglie nemiche: «i solda¬ ti austriaci sono affamati, mal vestiti, hanno un'aria da saccheggiatori e da zingari.. Prendono tutto: scarpe, mantelli, olio, caffè, alcool, guanti di gomma, materiale di medicazione. Tutti si riforniscono: dal fantaccino agli ufficiali superiori. Tutto torna utile al nemico, assolutamente privo dell'indispensabile. Mi viene spontanea la domanda: scrive la Clerici - da questa gente ci siam lasciati battere?». Poi la crocerossina conosce meglio gli avversari: la correttezza dei soldati, la protezione cavalleresca degli ufficiali, il complicato gioco delle nazionalità (immediata sintonia con viennesi e ungheresi, reciproca ostilità con i croati: «rappresentano il vero tipo duro, tronfio, che noi italiani imparammo ad odiare da bimbi sulle ginocchia dei nonni. Anch'essi ci odiano cordialmente e vorrebbero disfarsi di noi»). Nell'ospedale italiano, ormai in via di smantellamento, per alcune settimane si curano sia i feriti italiani che i combattenti austriaci che affluiscono dal fronte. E, pressoché subito, ci si accorge delle durissime difficoltà alimentari degli occupanti che «non mangiano meglio dei prigionieri italiani e spesso si vedono Intenti a raccogliere e cucinare erbe, verdure e avanzi». La fame: anche per la crocerossina comasca - trasferita prima a Lubiana, poi a Vienna (nella capitale le sembra di essere vittima di un sogno «Sei pazza - mi dico - come mai tu, italiana, puoi essere oggi a Vienna?») e infine nel campo di Katzenau - inizia l'esperienza dell'inedia, delle razioni miserrime, del cibo immangiabile. E' consapevole che lì sono rose e fiori rispetto ad altri lager e tuttavia, il 18 febbraio del 1918, scrive: «Miseria, denutrizione, morti numerose e inesorabili. Non esco dalla baracca per non rabbrividire incontrandomi con gli sventurati che tremanti, inebetiti dalla fame, rovistano ogni palmo di terra per scoprirvi un seme, un filo d'erba, una buccia». Sei mesi dopo, nell'agosto, Antonietta Clerici viene rimpatriata. L'agonia dei prigionieri continuerà ancora, fino all'autunno. mm • Prigioniero in un campo di concentramento del primo conflitto mondiale: le traversie dei soldati rivivono nelle pagine di Gadda e nel saggio di Gibelli «La grande guerra degli italiani» LUOGHI COMUNI Personaggi e memorie dell'Unità d'Italia di Oreste del Buono e Giorgio Boatti (gboatti@venus.it)
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