Munari

Munari Munari il gioco dell'intelligenza LA MOSTRA DELLA SETTIMANA Marco Rosei Apoco più di un anno dalla fine del suo aereo viaggio di infante geniale lungo novant'anni di un secolo di cui ignorava (voleva ignorare) le brutture, un vero festival Bruno Munari (festa, gioco) corre su e giù per scale e sale della Fondazione Bandera, dai primordi di un Secondo Futurismo altrettanto ludico e sprovincializzato quanto quello di Atanasio Soldati fino allo Swatch Tempo libero concettual-surrealista, con le ore liberamente ammonticchiate sopra il quadrante. Il libero e nel contempo lucidissimo spirito senza età, che rendeva così fruttifero il suo rapporto didattico, psichico, ottico con l'infanzia, fu la grande l'orza che improntò per decenni la sua arte-gioco. Giorgio Soavi lo ricorda nel catalogo Mazzetta: «Munari aveva convinto un giovane professo- LA MDSETTMarc re, Umberto Eco, a scrivere la prefazione al primo catalogo di una mostra di arte programmata che andò in giro prima in Italia e poi in America grazie alla Olivetti. Tutto bene. Gli oggetti inventati da quei ragazzi erano di prim'ordine, ma la cosa che certamente faceva soffrire il bambino Munari, nato nel 1907, era di non aver inventato lui stesso il nome "Spie e Span"... Mi sembra proprio che il suo talento fosse legato non soltanto alla perfezione formale e al rigore delle sue famose copertine studiate per i libri di Einaudi, ma avesse nella pancia lo stesso tipo di natura che aveva catturato Alice quando si incamminava, senza farselo ripetere due volte, con i suoi nuovi amici per entrare nella tana del coniglio, ascoltare i consigli di un bruco o sedersi a tavola per giocare a scacchi». STRA LLA MANA Rosei Era lo stesso Munari a spiegarlo, con tutta l'arguzia del suo spirito dissacratore, a proposito del tanto discusso rapporto fra le sue Macchine inutili, esposte per la prima volta nel 1933 alla Galleria Pesaro di Milano, e i «mobiles» di Calder: «Nate nel bel mezzo del Novecento italiano, classico, monumentale, eroico e "granitico", le mie Macchine inutili sono sempre stale considerate come scherzi o meglio come "giochini", neanche giochi (i giochi sono cose serie) ma giochini, proprio roba da poco. Infatti non erano né di bronzo come deve essere una vera scultura, né di marmo, nemmeno dipinte a olio, ma a tempera, non si appendevano al muro come i quadri, ma al soffitto come i lampadari... Tutte valutazioni che di fronte a un oggetto costruito in cartoncino colorato a tempera, bacchette di legno e fili di seta, come le mie Macchine inutili di allora, fanno orientare decisamente il giudizio più favorevole dalla parte di Calder» con i suoi grandi ferri. Una levità ludica e aerea e «povera» contro la materia nobile dell'arte, ancorché d'avanguardia: ancora Soavi, «Munari, anche in quell'invenzione, aveva dato grazia all'aria che respiriamo». E' un gioco lungo tutta una vita, le due magiche Macchina inutile e Macchina aerea, qui esposte, stendardi o gonfaloni araldici di un torneo di giocattoli, sono degli Anni 80 e 90, ma l'originale e diretta alternativa a Calder, grafema spaziale ambiguamente allusivo ad uno zoomorfismo, esposta nella replica 1987, risale al 1947. Il gioco dunque, l'intelligenza della fantasia poetica e «innocente» nel senso alto, le mai smentite radici tra futurismo ludico e dadaismo equilibrate dalla «ratio» ottica del Movimento Arte Concreta e dalla lucidità del designer; ma il tutto proiettato su uno straordinario, inimitabile panorama di ironizzazione globale del secolo delle avanguardie. Tutt'altro che polemico, anzi affettuoso e partecipe. Solo in questi termini di globalità possiamo comprendere la vastità del gioco di Munari, sotto la costante triplice impronta dell'intelligenza critica, della «povertà» e semplicità dei materiali, esaltante la più diretta e semplice manualità, e dell'intuitiva capacità di anticipare i tempi culturali. 1 Concavi-convessi in rete metallica dell'immediato dopoguerra sono in tutto e per tutto l'omaggio casalingo al «realismo»-costruttivismo di Pevsner, con le sue bronzee spirali dominanti sulle piazze delle metropoli mondiali e infinitamente imitate, ottenuto staccando dal telaio della finestra la zanzariera e appendendo il tutto in tinello. Il che non toglie che nel grande spazio espositivo a terreno domini l'eleganza dello sviluppo nello spazio delle due grandi varianti dei Quadrati a tre dimensioni in ferro verniciato nero. Nel contempo, sul versante alternativo, la Composizione del 1946 è un puro oggetto surrealista combinato con trombette e pifferi da bambini, un soldatino di piombo e una «classica» mano di gesso. E, ad un livello quasi di impudicizia che solo un Munari può permettersi, la mitica Sposa messa a nudo di Duchamp si miniaturizza nella valvola radiofonica schiacciata e messa nel perspex intitolata Fossile del Duemila. Su questa stessa linea, le immobili Macchinearitmiche, con le loro bacchettine e fili flessibili e vibratili incoronate da piume colorate e ali di carta velina, collegate a «defunte» meccaniche d'orologio arrugginite, risalgono al 1951, gentile irrisione anticipata di Tinguely. Omaggio a Bruno Munari Busto Arsizio. Fondazione Bandera Da mar.adom. 10-12,30,15,30-19. Finoal 13 febbraio ?000 A BUSTO ARSIZIO LE INVENZIONI DI UN ARTISTA CHE «HA DATO GRAZIA ALL'ARIA CHE RESPIRIAMO» CON IV1ACCHINE INUTILI E MARCHINGEGNI LUDICI Bruno Munari (foto Giorgio Lotti) nel suo studio con le «Sculture da viaggio»

Luoghi citati: America, Busto Arsizio, Italia, Milano, Stra