Harding danza con Beethoven di Sandro Cappelletto
Harding danza con Beethoven Un'ovazione per il giovane direttore e la Mahler Chamber Orchestra Harding danza con Beethoven Bravissima la Zilberstein in Prokofiev Sandro Cappelletto TORINO Dice Daniel Harding, ventiquattro anni: «Quando apro una partitura storica, per me è nuova». Dice e fa, il maestro inglese che ha diretto la Mahler Chamber Orchestra all'Auditorium del Lingotto per la Stagione dei Concerti. Sala piena, successo letteralmente felice, perché questa formazione di ragazzi di quindici diverse nazionalità comunica un'idea del far musica insieme come scoperta e avventura, perfino spudorata. Su cinquanta elementi, tre sono italiani; tra loro, il primo violino, il torinese Antonello Manacorda, protagonista di un funambolico cambio di strumento in corsa durante l'ouverture dall'«Egmont» di Beethoven: salta la corda del mi, il suo vicino di leggìo gli passa lestissimo il proprio violino, Manacorda riprende la marcia. Tre italiani su cinquanta, scelti dopo rigorose selezioni: a contrario di quanto continuano a pensare i nostri sindacati più corporativi e protezionisti, è soltanto la consapevolezza della qualità che garantisce, in una professione artistica, il diritto al lavoro e la possibilità di emergere, come appunto sta accadendo ai ragazzi della Mahler. Spudorati, lo sono per la disinvoltura con cui si accosta¬ no ai classici: ventenni di oggi, archeologi della musica di due secoli fa. Harding sceglie i corni a pistoni, ma vi affianca le trombe naturali; violoncelli al centro, tra violini e viole, contrabbassi all'estrema sinistra, ottoni al lato opposto, timpani in fondo sulla destra, ma discosti da flauti, oboi, clarinetti e fagotti: altro che «destino che batte alla porta», Beethoven è una magia sonora da esplorare. Le dinamiche, gli spessori, le esplosioni,] silenzi - perfino troppo teatrali - del suono sono governati con una fluidità possibile solo a orchestre molto consapevoli e allenate. Il rifiuto del vibrato è totale: questa musica non ha bisogno di ulteriore retorica, la verità non si confonde mai con il sentimentalismo. Nella Quinta Sinfonia - che questa sera, nella stessa sala, verrà diretta da Riccardo Muti con la Filarmonica della Scala Harding esegue i ritornelli per lo stesso motivo per cui ripristina, rischiando di frenare l'impulso febbrile del movimento, la cadenzina «adagio» dell'oboe nell'Allegro iniziale: è un contagioso edonista del suono e ogni ritornello è un'occasione per variarlo, alla maniera dei virtuosi settecenteschi. E quando Beethoven inventa relle cinquanta battute in cui timpano rulla ostinato e violini, viole, violoncelli si imbambolano come sei il mondo si fosse fermato, è troppo ghiotta per lui l'occasione di sottolineare il contrasto con l'esplosione del quarto movimento, saetta di suono. Con la sua gestualità ampia, aggressiva, ma danzante, perfino sonora nello sbatter di tacchi sul podio, ha governato la sfrenata libertà ritmica e di colori del Terzo Concerto di Prokofiev, scritto nei meravigliosi e troppo brevi anni che hanno preceduto la normalizzazione stalinista, quando ancora gli artisti russi credevano che la Rivoluzione significasse, per loro, libertà di pensiero e di stile. La solista Lilya Zilberstein, nata a Mosca nel 1965 è uno dei più recenti e preziosi regali dell'ancora intatta scuola russa di pianoforte. li direttore d'orchestra inglese ventiquattrenne Daniel Harding
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