Uccellini circoncisi di Paolo Mieli

Uccellini circoncisi Miserie e viltà degli intellettuali italiani che «spararono» contro gli ebrei e poi nascosero il loro passato Uccellini circoncisi Paolo Mieli UALCHE tempo fa, poco prima dell'estate scorsa, l'editore Einaudi ha dato alle stampe un bellissimo volumetto di Sandro Cerbi, Tempi di malafede, che aveva come tema il complicato rapporto tra lo scrittore Guido Piovene (1907-1974) e 'l'intellettuale ebreo socialista Eugenio Colorni (1909-1944). Il libro partiva dalla ricostruzione dell'amicizia giovanile tra i due, allorché alla fine degli Anni Venti si trovarcnc entrambi a frequentare le lezioni di Piero Martinetti e Giuseppe Antonio Borgese alla Facoltà di Filosofia della Regia Università di Milano. Amicizia destinata ad interrompersi nel '31, a seguito dei primi articoli antisemiti di Piovene. Ma che in qualche modo si riallacciò nel '41 per durare fino al 30 maggio del '44, allorché Colorni morì in seguito alle ferite riportate due giorni prima in un agguato fascista. Destino quanto mai crudele se si considera che Roma stava per essere liberata dall'esercito alleato. E fu proprio Piovene che il 7 giugno del '44 fu chiamato a scrivere su II Tempo la commemorazione funebre in onore dell'amico: «Colorni», scriveva parlando tra le righe (e vedremo perché) più di sé che dello scomparso, «e l'unico uomo del quale, in due riprese nella vita, io abbia subito una decisiva influenza: forse l'unico uomo conosciuto da me che sarei pronto a definire "grande" senza incertezze». Le due «riprese nella vita» di cui parlava lo scrittore erano state intervallate da un decennio durante il quale Piovene aveva «ceduto» all'antisemitismo. Fino a pubblicare sul Corriere della Sera del 1 ° novembre 1938 una entusiastica recensione a un libro sinistramente famoso di Telesio Interlandi dal titolo Contra judaeos. Libro edito da Tuminelli come primo di una collana denominata «Biblioteca Razziale Italiana». Piovene scriveva che «si deve sentire d'istinto, e quasi per l'odore, quello che v'è di giudaico nella cultura; chi non difetta d'istinto, non confonde l'opera ebrea con una che sembra simile per analogie esterne». «La ricerca del giudaismo nelle arti e nelle lettere non dovrebbe mai essere soverchiamente ragionata, o può accadere quel che è accaduto ad alcuni, che, a furia di sottigliezze, finiscono per concludere che il mondo è per quattro quinti giudeo». E ancora: «gli ebrei possono essere solo nemici e sopraffattori della nazione che li ospita». Per poi aggiungere: «Di sangue diverso e coscienti dei loro vincoli non possono che collegarsi contro la razza aliena». E via di questo passo. Di nefandezza in nefandezza. Dopo il 1938 Piovene aveva evitato di cimentarsi, quantomeno in modo diretto, con tematiche antiebraiche. Era stato, per cosi dire, più trattenuto. Nel 41 aveva invece pubblicato Lettere di una novizio., un testo destinato ad essere molto importante per la sua generazione. Il libro approfondiva i temi della malafede e della ineluttabilità del male. In modi così sottili da fornire un'occasione di scavo dentro di sé, nonché di coltivazione del dubbio, per molti suoi coetanei che erano intenzionati a capire qualcosa di più del loro rapporto con il fascismo e la guerra. Anche Colorni che proprio in quel periodo, al confino, si era dedicato a letture di psicanalisi dovette essere turbato da quelte pagine. Tanto da decidersi a muovere il primo passo per riprendere i rapporti con Piovene. E la loro nuovorapporosncerme mai, nella commemorazione su // Tempo, Piovene non dedico neanche un cenno ai motivi che avevano causato l'interruzione dell'amicizia tra lui e Colorni? Possiamo dirci sicuri che, anzi, non si servì della ripresa consuetudine con Colorni per nascondere dietro lo schermo di quel rapporto ritrovato quei suoi trascorsi di contiguità con l'antisemitismo? È un fatto che Piovene abbia poi rimosso quei suoi scritti antisemiti fino a che fu costretto ad affrontare la questione all'inizio degli Anni Sessanta. Si era all'epoca del processo Eichmann: in un convegno sul tema «Gli ebrei in Italia durante il fascismo», Guido Lodovico Luzzatto ritirò fuori quei lontani articoli di Piovene e si disse indignato del fatto che il «conte rosso» (così era stato definito lo scrittore per le sue nuove simpatie nei confronti dei comunisti) fosse accolto come un amico in ambienti in cui si discuteva su come reagire a manifestazioni neonaziste. Luzzatto con sottigliezza filologica individuò in Piovene anche colui che aveva passate al Corriere alcune informazioni su Colorni al momento in cui (mesti era stato arrestato nel 1938. Fu allora, solo allora, che Piovene rispose con un gran bel libro, La coda di paglia, che però era ancora infarcito di reticenze e aveva, se così si può dire, il torto, sotto il profilo etico, di giungere in libreria con un ritardo di quindici, vent'anni rispetto al momento in cui avrebbe dovuto essere stato scritto. Nell'investigare su questa storia Sandro Gerbi prendeva per mano il lettore e lo accompagnava lungo sentieri che, stranamente, sono ancor oggi tortuosi. La domanda sottintesa nel suo libro ovene nte rosso» to e di quel ultura» Tempi di malafede è questa: com'è possibile che importanti intellettuali italiani che avevano scritto pagine antiebraiche, nel dopoguerra, ebbero l'opportunità di rimuovere o minimizzare quel loro passato? E perché la comunità alla quale essi appartenevano, pur enfatizzando a dovere il male assoluto insito nell'Olocausto, lasciò perdere, non volle conoscere i dettagli di quei loro trascorsi? Solo per il fatto che queste persone dopo la caduta del fascismo il 25 luglio del '43 avevano, in qualche occasione con coraggio, abbracciato le idee della nuova Italia che si andava costruendo? O perché questi «piccoli episodi di antisemitismo» continuavano a costituire motivo di imbarazzo per tutti, per il solo fatto di esser stati cosi a lungo ignorati? A queste domande non è venuta risposta. E così Gerbi, ottenuti premi e i più ampi riconoscimenti per Tempi di malafede, ha deciso di continuare nella sua indagine. Il risultato dei suoi studi sarà oggetto di una relazione in un importante convegno che si terrà a Milano tra un anno. Ma già comincia a venir fuori qualcosa che Sandro Gerbi ha deciso di affidare alle pagine della rivista «Belfagor» in libreria a giorni con il titolo «Ricciardetto e gli uccellini circoncisi». Ricciardetto, al secolo Augusto Guerriero, è stato in questo dopoguerra uno degli autori più stimati dai lettori sulle colonne del Coiriere della Sera e di Epoca. Aveva un modo di scrivere anglosassone, ironico, garbato. Fu, dopo il 1948, un grande difensore della causa ebraica. Quando morì, nel 1981, Indro Montanelli che gli era amico ne parlò come di «un moderato di formazione e vocazione liberale, filosemita e più sionista di molti ebrei». E, parlandone con Gerbi a cui aveva dato una mano nella ricostruzione di alcuni dettagli della biografia di Piovene, lo stesso Montanelli si era detto incrèdulo quando que¬ sti gli aveva detto di aver t -ovato nella collezione del Corriere art icoli antiebraici anche di Ricciardetto. Qualcosa di già parzialmente individuato dal deputato missino Nino Tripodi e dallo storico del Corriere Glauco Licata. Ma che adesso, grazie anche ail alcune scoperte di archivio, Gerbi ci mostra nella sua imbarazzante completezza. Gli «uccellini circoncisi» di cui si ]iarla nel titolo vengono da una citazione dal diario di Giuseppe Bottai alla data 11 agosto 1938, in prossimità del varo delle leggi razziali: «Il problema dogli ebrei», scriveva Bottai, "esiste anche in Italia. Ma in piccole proporzioni. Si poteva risolverlo con dei piccoli :itt i amministrativi. Insomma, perché sparare con un cannone per uccidere un uccellino, anche se si tratta di un uccellino circonciso?». Contro questi «uccellini circoncisi» a suo modo «sparò» anche Augusto Guerriero. Non staremo qui a dilungarci sulle tre colonne di piombo che apparvero sul Corriere il 5 aprile del '41 a firma di Ricciardetto Come Piovene aveva fatto con Interlandi, Guerriero scelse di agire per interposto antisemitismo, magnificando la «scientificità» di terribili pubblicazioni tedesche contro gli ebrei. Quel che più qui ci interessa è ciò che Gerbi ha trovato negli archivi messigli a disposizione dal Corriere. E cioè le lettere tra Guerriero e il direttore del quotidiano, Aldo Borelli, che accompagnarono l'uscita di quello e altri articoli e che offrono significativi dettagli su quella lontana vicenda. Guerriero aveva cominciato a collaborare al quotidiano milanese nel 1940. Ma dopo pochi mesi il mensile «La Vita Italiana» di Giovanni Preziosi lo aveva preso di mira. Preziosi, principale alfiere dall'antisemitismo italiano, traduttore e diffusore dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion, era un sodale di Roberto Farinacci, gran sostenitore dell'alleanza con la Germania nazista. Mussolini non lo stimava un granché (lo considerava un menagramo). Ciò che non impedì al Duce di affidargli, nel 1944, la £uida dell'Ispettorato generale per la razza. Gli articoli della «Vita Italiana» contro Guerriero furo¬ no poca cosa Piu che attacchi, erano degli sfotto. Il nostro veniva accusato di aver compilino qualche pezzo «su ritagli e aneddoti ili seconda mani)» e, in particolare, a un suo intervento sugli Stati Uniti veniva imputato di costituire un «raro esempio della ignoranza del problema politico dell'ebraismo, cioè del motore della politica mondiale del nostro tempo». Ma tanto basto ad impensierire Ricciardetto-Guerriero. Che si affrettò a scrivere, «per riparazione», l'articolo di cui abbiamo detto Accompagnandolo con una lettera privata al direttore che rende la vicenda ancor più imbarazzante. «Caro Direttore», scriveva Guerriero, «vi spedisco fra qualche ora un articolo sull'ebraismo e la guerra. Vi prego di pubblicarlo con sollecitudine per la seguente ragione. Due mesi fa, la rivista "La Vita Italiana" pubblicò una noticina molto blanda... le qui ripercorre la vicenda di cui abbiamo appena riferito, ndr]. Con l'articolo che vi spedisco mi metto - come si suol dire - a posto: se dovesse venir fuori una terza nota nel prossimo numero, io la avrei prevenuta. Aggiungo che il mio articolo è tutto ricalcato su pubblicazioni nazional socialiste. Quindi, se qualcuno vi trova da ridire, tiro fuori i testi». Poi, a peggiorare le cose, così prosegue: «Vi sarei gratissimo se voi aveste modo di pregare Farinacci di fare smettere questa polemica. Altrimenti, dovrei diradare la mia collaborazione al Corriere, che desta tanta invidia. Per me è un onore scrivere sul Corriere. Ma antepongo la mia pace agli onori. Non e molto coraggioso, ne convengo». L'articolo viene pubblicato e quattro giorni dopo, il 9 aprile del 1941, Guerriero gusto a causa o articolo icalcato ialiste» annuncia fiero a Borelli: «Caro Direttore, vi comunico che il dott. Preziosi mi ha scritto una lettera mollo cortese. Credo che fra qualche giorno andremo a pranzo insieme Cosi, anche questa è fatta». Ma in autunno c'è un nuovo «incidente». Guerriero scrive un articolo sarcastico contro Roosevelt. Un redattore del giornale inserisce accanto alla frase in cui si parla di «parenti lontani» del presidente americano le parole : «ingran parte ebrei» Ricciardetto che ila chiesto di persona questa interpolazione dovrebbe esser contento E invece no. Si rivolge di nuovo al direttore Borelli: «Venerdì pregai Mauri (Raffaele, vice-capo della Redazione romana del Corriere, ndr\ di telefonare a Milano ih tare al mio articolo sui parenti di Roosevelt una piccola aggiunta per accennare alla ascendenza ebraica del Presidente (iuesto per evitare 1 noie da parte di riviste che hanno insistito su questo particolare... |e qui riferisce dell'interpolazione di cui abbiamo detto, a leggere la quale sembra che ebrei si potessero definire solo alcuni parenti lontani del Presidente degli Stati Uniti, ndr). Ma, in quel modo, può dar luogo a interpretazioni erronee. "Dunque", m' s' può dire, "la madre, la moglie, i tigli ecc. ossia la famiglia diretta non ha niente di ebraico E, invece, tra i parenti lontani ce ne sono di ebrei. Non avete letto la nostra documentazione:' E ignorate che Roosevelt, stesso ha ammesso di avere sangui' ebraico?". Voi sapete che io amo vivere in pace, specialmente quando sono innocente. Se permettete, torno su Roosevelt con un pretesto qualunque». lì cosi fu. Il I dicembre d->l 194 1 Ricciardetto correva «ai ripa ri»: «Roosevelt», scriveva, «è una natura complessa, la cui complessità, forse, trac origine dal confluì redi sangui diversi F. un polii icante astuto; che non rifugge dalla menzogna o dai mezzi piu bassi per conseguire i suoi fini. E, nello stesso tempo, crede ili essere un ispirato. Ila dei machiavellico e, nello stesso tempo, del messianico.. ». E qui si arriva al punto che sta a cuore al nostri, Ricciardetto: «Nel suo messianesimo si deve, forse, scorgere un riflesso di quel sangue ebraico che lui stesso riconobbe di avere nelle vene (in un discorso del 14 marzo 1935 che fu pubblicato dal New York Times e rilevato dalla "Vita Italiana")». Il saggio di Gerbi su «Belfagor» si conclude con la riproduzione del penoso carteggio che Guerriero ebbe con la nuova direzione del Corriere nel dopoguerra prima di poter tornare a scrivere nei I94G. Uno scambio di lettere che ila pane di Guerriero e tutto all'insegna della rimozione. 0 anche di qualcosa di peggio. Almeno per quel che attiene la menzione, a mo' di benemerenza, degli attacchi di Preziosi accompagnata dall'omissione delle sue «reazioni) a quegli attacchi. Sandra Cerbi guarda a questi lontane vicende con tutta la pietas che è doverosa. Il suo non è un indice puntato. Non chiede che gli autori da lui presi in esame siano messi al bando dalla memoria collettiva per quelle loro debolezze di oltre cinquantanni fa. Mai, neanche in una riga, Gerbi usa il tono di chi si erge a giudice. Si (e ci) domanda piuttosto: perché non portare alla luce cruel mondo di miserie e piccole viltà? Non è di qualche interesse per chi è impegnato a battersi affinché l'antisemitismo non abbia a ripresentarsi mai più - approfondire quali furono le reali motivazioni che spinsero alcuni italiani, destinati ad essere in qualche modo illustri nel dopoguerra antifascista, ad avere qualche «giovanile» cedimento antisemita? E perché nessuno, ma proprio nessuno di loro, ha deciso di parlarne in maniera non elusiva prima (e spesso neanche dopo) che quegli imbarazzanti trascorsi fossero riportati alla luce? E proprio nel momento in cui lodiamo il lavoro di Gerbi dobbiamo ammettere apertamente che le sue sono domande molto stimolanti. Ancora senza risposta. Perché la comunità alla quale appartenevano non volle conoscere quei loro trascorsi? Nel dopoguerra Guido Piovene fu soprannominato il «conte rosso» eppure nel 38 aveva scritto che «si deve sentire l'odore di quel che v'è dì giudaico nella cultura» Ricciardetto, al secolo Augusto Guerriero, dal '48difese la causa ebraica. Ma nel '41 un suo articolo sul «Corriere» era «tutto ricalcato su posizioni nazionalsocialiste»