Bowles, l'ultimo maledetto di Tangeri

Bowles, l'ultimo maledetto di Tangeri ADDIO ALL'AUTORE DEI TE' NEI DESERTO Bowles, l'ultimo maledetto di Tangeri Si è spenta la leggenda della città dissoluta la storia Igor Man SI è fermato, lui, Paul Bowles, che aveva scritto autobiograficamente «Senza fermarmi». ATangeri, giovedì 18 di novembre, è morto 1 ultimo irregolare della letteratura, l'adorabile scrittore americano di viaggi non solo fisici ma anche, se non soprattutto, di viaggi dentro l'uomo che «è difficile essere»; dentro l'uomo che ci appartiene ma che non conosciamo a fondo poiché quell'uomo «sei tu». Nel suo inglese poco yankee, raffinato, quando ebbi la ventura di incontrarlo mi disse: «L'importante non è vivere, quel che conta è vivere come ti piacerebbe: magari con Epicuro nel letto e la Bibbia sullo scrittoio. Spesso continuò -, parafrasando il Vangelo, il più grande romanzoverità della Storia -, io ripeto a me stesso: "Ancora un poco e mi vedrò: come sono"». Mi auguro che ce l'abbia fatta e che nel cuore immenso di Dio ci sia un posto, magari piccolo, dove l'ultimo esotico gentiluomo occidentale, possa infine trovare sé stesso, «vedersi», insomma. Dicono che negli ultimi due anni lo rodesse la pena che gli aveva procurato Mohammed Choukri: col suo libro Paul Bowles e la solitudine di Tangeri. Lo scrittore marocchino definisce Bowles «razzista, avaro, ipocrita, ladro». Paul Bowles aveva registrato e poi reso in letteratura, se così può dirsi, il racconto che Choukri gli aveva fatto della sua vita picaresca. Ne era venuto fuori il libro «For bread alone» pubblicato in inglese con la firma di entrambi: Choukri e Bowles. Non ebbe fortuna in America, trionfò in Francia tradotto magistralmente da Tahar Ben Jelloun. Tlu'esTo cu" ascoltare le stòrie di chicchessia: la sua casa di Tangeri accoglieva chiunque, specie «marocchini analfabeti ma straordinariamente vissuti» - per poi trascriverle era una «cara consuetudine» per Bowles; «un lavoro da etnologo e altresì da rabdomante». Per altro assai criticato da non pochi intellettuali marocchini, persino da Tahar Ben Jelloun che su Le Monde aveva scritto «Technique d'un vioh. Epperò il prolifico, autentico scrittore ch'è Ben Jelloun, nella primavera del 1972 scrisse un generoso articolo per condannare la «diffamazione» di Bowles proprio da parte di chi era stato messo al mondo delle lettere dal solitario gentiluomo di Tangeri «E' una storia che puzza», concludeva Tahar Ben Jelloun Non so, come lo stesso Jelloun sostiene, se la «diffamazione» abbia reso tristi gli ultimi anni di vita di Bowles. Mi auguro di no, perché mi riesce difficile crederlo. Lui, a suo modo, aveva stima di ima persona soltanto, sé stesso. Si voleva bene, insomma. Sempre a modo suo, beninteso. A Taormina nell'aprile del 1953 conobbi Truman Capote. Lo ascoltavo parlare, rapito, al bar dell'albergo Timeo, odoroso di gin e di cera d'api. Ancorché giovanissimo avevo già nel carniere diversi paesi, non poche città e personaggi. In quel tempo i giornali spendevano volentieri i soldi per mandare in giro i giornalisti capaci di «raccontare il mondo». Allora, ii turismo era roba per miliardari o beatniks, la tv latitava sicché la brava gente viaggiava leggendo i nostri articoli. Capote non faceva che parlar (male) di Gide, amatissimo dai taorminesi, e (bene) di Tangeri. «E' un luogo senza tempo, una baia che ti trattiene e i giorni scivolano via come la schiuma di una cascata, senza che uno se ne accorga. Tangeri è come un monastero il cui padre guardiano si chiama Paul Bowles: entrambi bastano a sé stessi». In un aprile precedente, nel 1931, Paul Bowles, scrittore e musicologo, sbarcava, giovanissimo, a Tangeri. Per rimanervi. Certo, ogni tanto partiva, ma per immancabilmente tornare nella sua minuscola casa senza telefono, al quarto piano d'una banale palazzina, accanto al nuovo consolato americano. Tre stanze gonfie di cuscini, di libri, di spezie, di gelsomini, con l'incenso nell'aria e la teiera perennemente a bollire nel cucinino. La porta sempre aperta per favorire il via vai di amici improbabili, una vera corte di «cantastorie marocchini rigorosamente analfabeti», ricchi di fantasia erotica e per tanta virtù immessi nelle pagine dei suoi 19 libri, negli spartiti delle sue innumerevoli musiche. Ovvero raccontati come nel caso di «For bread alone». «Se sono qui adesso è soltanto perché mi trovavo ancora a Tangeri quando ho realizzato sino a che punto il mondo fosse degenerato, e ho capito che non volevo più viaggiare», disse non appena lo incontrai. Le celeberrime fotografie di Cecil Beaton ce lo raccontano biondo, elegantissimo: quando finalmente entrai nella sua casa, aveva 77 anni. Le belle mani espressive carezzavano i capelli già biondi e leggeri, portava un pullover di cachemi- re come il pettorale del Corsaro Rosso, la piega dei pantaloni di tela coloniale era perfetta, i mocassini lucidi fino al delirio dei sensi. Sembrava un cinquantenne niente affatto deluso, con l'immutata voglia di vivere e narrare l'orrore esotico. Infatti non c'è posto più adatto al mondo che Tangeri per rifiutarsi di «romantizzare l'esotico». E' quel che regolarmente ha fatto Bowles fra un amore e l'altro, amando e tradendo (in entrambi i casi corrisposto) Jane Auer «moglie piccolina, piccante, sempre in bilico tra lo humour, l'amore e le distrazioni», per citare l'amico più caro: Tennessee Williams. I beatniks che nei '60, soprattutto, bussavano alla sua porta (si fa proprio per dire poiché era sempre aperta - non la chiudeva mai, nemmeno quando si giaceva con la persona amata) «in cerca di una guida morale alla dissolutezza all'ombra delle palme», quasi mai capirono Tanti esotismo di Bowles. Ma loro volevano solo essere iniziati al majoun, la più potente delle droghe marocchine, al kif, altra droga però «aerea, raffinatissima». Attenzione: non crediate che Bowles fosse un drogato cronico, un tossico: fumare il majoun - spiegava - lo aveva aiutato a sfuggire alla trappola della banalità esotico-erotica quando scriveva il famoso «Tè nel deserto» (1949) che molti anni dopo Bertolucci avrebbe teneramente trasferito sullo schermo. In quanto al kif «è come prendere un multivitaminico». Non essendo un tossico non c'era in lui la perversa mania di contagiare gli altri. Malesh, rispondeva in arabo a chi rifiutava, imbarazzato, di fumare. Città profondamente araba, Tangeri ha abitanti che parlano uno slang ispano-ebraico-marocchino chiamato hakitica, ricco soprattutto di bestemmie elaborate, surreali. Tennessee Williams le annotava scrupolosamente in un taccuino e Willy Borroughs tentò di farne il veicolo di quella «scrittura automatica» sperimentata assieme a Bowles, poi realizzata con Brion Gysin, mediante il cut-cup, la tecnica post-Dada, post-marinettiana che pretendeva, nei Sessanta, d'essere «rivoluzionaria». A Tangeri Barbara Hutton aveva una casa nel cuore della Medina, le sue due leggendarie RollsRoyce color crema parcheggiavano sotto un tendone di bungan- villee. Tutti i venerdì faceva preparare un ricco cous cous per gli abitanti del quartiere. Era quello il tempo in cui scendevano all'Hotel Minzah Rita Hayworth, Errol Flynn, Orson Welles, Marion Brando, Novella Parigini, Gore Vidal, Roland Barthes, Jean Genet, Samuel Beckett, Michel Foucault. Si desinava al Yacht Club ovvero al Circolo Equestre - di rigore l'abito da sera, si ballava al suono di un radiogrammofono. La stagione felice di Tangeri è durata dal 1923, quando le Grandi Potenze diedero alla città uno Statuto internazionale - al 1960 allorché con l'indipendenza viene abolito lo Statuto e Tangeri «toma al Marocco». 11 porto franco attirava uomini d'affari ma anche lazzaroni. Sorsero 80 banche, fu inaugurata la Borsa, il Times aprì un ufficio di corrispondenza retto durante cinquant'anni dal mitico Walter Burton Harris. Aprì il più grande bordello del Mediterraneo, il Tru lieti Charki, germinarono infiniti bistro ove si radunavano ruffiani, lesbiche, contrabbandieri, spacciatori. I cinematografi proiettavano film egiziani interpretati dalla corposa cantante Umm Khulsum; faceva timida apparizione qualche filmetto d'un regista «estroso»: Luis Bunuel. La marijuana era in libera vendita nelle bodegas ma il traffico della droga pesante lo controllava, da Napoli, Lucky Luciano. Piedipiatti, spioni, trafficanti, cresi in pensione, signore vere, malfattori, prosseneti celebravano con impegno la gioia di vivere. I figli dei fiori andavano e venivano: nella stanza numero 9 di Villa Mantiene, la bianca pensione accogliente, Burroughs scrisse ali pasto nudo»: «Guardo i miei pantaloni, sono sudici - non li ho cambiati da mesi. I giorni scivolano via come un filo di sangue dalla siringa...». E com'è Tangeri, adesso? Oggi i pensionati hanno sconfitto gli eccentrici, le vdle sontuose fatte costruire dagli sceicchi sono sempre in attesa dei loro augusti padroni, lo stesso destino colpisce le ville dei grandi industriali italiani e non. lì Parade ha chiuso, anche il Dean's Bar: per un motivo molto semplice: la gioventù bruciata è diventata la gioventù disoccupata. Che si droga di tv nei caffè collegati coi canali spagnuoli che trasmettono in diretta le partite di Champion League. In compenso la Casbah ha conservato la sua puzza secolare: una mistura ili carne arrostita e di fogna aperta. Nel suk si possono, volendo, acquistare imitazioni (perfette) di valigie francesi griffate. I cambiavalute si moltiplicano e ogni tanto arriva qualche scrittore vero, giustappunto Tahar Ben Jelloun che ha ambientato il suo straordinario «Giorno di silenzio a Tangeri», spietata metafora della vita tradita, nella città fascinosa dove «il vento arriva da quell'apertura che c'è tra la punta-Nord dell'Africa e la punta-Sud dell'Andalusia». Un vento antico, il vento della Storia: da Ulisse ai Cavalieri di Allah, da Averroè ai mercanti di Cina. E come sarà, d'ora in poi, Tangeri senza di lui, senza il vecchio, raffinato, generoso Wasp che aveva smesso di bere whisky, come affermava orgoglioso, sconfiggendolo con un inopinato antidoto: il gin? Probabilmente sarà diversa ma del resto, diciamolo pure, non era più sé stessa oramai da tempo. Epperò sapevano, sapevamo che lassù, nel suo piccolo alloggio disordinato c'era sempre un letto e un piatto di cous-cous per chiunque entrasse. «Io vivo con poco, la mia ricchezza sono gli amici, in particolare quelli tanto diversi da me da rassomigliarmi, persino carnalmente». E qui Bowles citava Kcrouac, Fernanda Pivano, Tennessee Williams, Genet e «i due Geni»: Alien Ginzberg, l'esplosivo autore delYUrlo, il Munch della Nuova Letteratura, e William (Willie) Borroughs «così simile ad un personaggio del Rinascimento, dissipatore di ricchezza, donatore di quella luce che troviamo nei quadri di Matisse». «Matisse, nel 1912, lasciata Siviglia venne qui a Tangeri "per rubarle la luce". Attese, testardo, chiuso nel Grand Hotel Ville de France, che smettesse di piovere e finalmente, tornato il sole ad incendiar Tangeri, Matisse ne colse golosamente la luce che ritroviamo in tutti i suoi quadri». Paul Bowles amava Tangeri anche per la sua luce. Bowles guardava il cielo, sempre, ostinatamente, forse in cerca della luce. E il Vecchio Cronista che ebbe la fortuna di incontrare Paul il solo, quand'era giovanissimo, tanti anni dopo il Vecchio Cronista pensa che il modo migliore di onorare Paul, l'ultimo dei «Santi Barbari», sia quello di dedicargli, a mo' di epitaffio, le parole con cui egli chiude «Jì té nel deserto». Quelle parole, un'ultima poesia, annotate da Willy Borroughs nel suo diario, in data 6 di giugno del 1997, poco tempo prima di morire, il 2 di agosto del 1997. Eccole: «Cielo. Cielo. Cielo. Non riesco nemmeno più a scrivere la parola cielo. Credo di averne coscienza - perché continuare?». Giovane letterato e musicologo arrivò negh Anni 30, nel pieno di un'ambigua stagione di sfrenatezze Andai da lui presentato da Truman Capote Disse: sa che Matisse venne qui per rubare la luce di questo cielo? E' scomparso uno dei più raffinati e controversi scrittori del secolo, iniziatore dei beat alle droghe esotiche e sprezzatore del facile esotismo |OÌ In alto una turista americana contratta con un impagliatore di Tangeri negli Anni 30. A sinistra, lo scrittore Paul Bowles