GRAZIE, JOHN FRATELLINO MIO

GRAZIE, JOHN FRATELLINO MIO GRAZIE, JOHN FRATELLINO MIO ERO appena arrivato a New York sapendo che da poco era uscito negli Usa «La Cosa» di John Carpenter. L'attesissima «Cosa» di Carpenter. Il film che da un anno tutte le fanzines d'Europa descrivevano già in termini leggendari pur non essendo ancora finito. Quello che si annunciava il capolavoro di Carpenter. La prima collaborazione tra Carpenter e Ennio Morricone. «Il film horror del secolo». Pur con il jet lag sul collo la sera stessa del mio arrivo andai a vederlo. Ricordo che ero in un cinema a Times Square (la Times Square di qualche anno fa, non il centro commerciale, «fiore all'occhiello di Giuliani», che è oggi). Il film, secondo me, era superiore alle aspettative. Uscii senza parole. Notai con sorpresa che molta parte del pubblico era invece contraria al film. Dicevano che era disgustoso (confondendo il disgusto degli effetti con il disgusto per un film brutto). Pensai di essere capitato in un film di Carpenter, in un luogo dove l'eccezionale veniva considerato mediocre, il bellissimo bruttissimo, il bianco nero. Anche le critiche sui giornali americani trattavano malissimo il film. Capii così la grande distanza tra l'America e l'Europa. «La Cosa» è un film che noi europei abbiamo amato ed esaltato. Compatto e tremendo. Caso quasi unico, a mio parere, più potente, fantasioso, emozionante dell'originale «La cosa da un altro mondo», a cui alla lontana Carpenter si era ispirato. Il pubblico americano, fomentato dalla critica dei quotidiani statunitensi, era invece contrario al film considerandolo pessimo quasi per le stesse ragioni per le quali io lo consideravo bellissimo. Pensai in che stato d'animo Carpenter fosse (allora non ci conoscevamo) e provai grande tenerezza per lui, per il suo talento così originale. Senza accorgermene divenni un carpenteriano di fetTO, un suo sostenitore fino alla morte, e cominciai a studiare i suoi film con più impegno, leggendo anche qualcosa scritta su di lui. Così entrai con discrezione nella personalità di questo regista. Che si diceva seguace di Hawks. Che fu un talento precocissimo. Che di un film padroneggia tutti gli stati e le fasi, della scrittura e alla composizione della musica (splendide le sue colonne sonore). Lo invidiavo per la sua vitalità. Mi dicevano che raggiungeva spesso la troupe sul set guidando lui stesso il suo piccolo elicottero. Che era un uomo tenero e fragile. Personalità contraddittoria, come quasi tutti i registi. Da allora ho percorso con lui tutta la sua carriera. Ho riapprezzato «Halloween». Fantastico. Semplice. La macchina da presa che va e va, e racconta il volto giovanissimo di Jamie Lee Curtis. Quel piccolo quartiere micidiale. Hawks? Non ne ho vista molta traccia. Ma il fatto che lui dica che è il suo regista preferito, il suo mito e feticcio, non significa necessariamente che Carpenter sia hawksiano. Anche io dico e sono convinto di dover molto al cinema espressionista tedesco. In un film ho cambiato il nome di una strada mettendo un cartello «Via Fritz lang». Eppure quando con calma rivedo quel mio film (cosa che mi accade di rado, infatti io non vedo mai i miei film con il pubblico e volutamente non ho nessun mio film in cassetta) dell'influenza dei grandi tedeschi, i maestri delle immagini e delle ombre, delle atmosfere morbose e macabre, c'è poco o niente. Questo non significa che l'espressionismo tedesco non mi abbia influenzato. Ma ogni regista è un mondo a sé. Carpenter è un mondo a sé. Capenter è Carpenter. Pur se con il passare degli anni i suoi paesaggi sono diventati più sinistri, i personaggi più feroci e insensati, le sue storie ancor più angosciose. La sua potente personalità ha sconquassato il cinema americano. Ha indicato la strada a tanti autori. Ci ha deliziato con il suo talento per tanti anni. Quindi, Hawks o non Hawks, lui è per me uno dei registi più originali di questo secolo di cinema. E sono molto riconoscente primo alla Cinemateque Frangaise che alcuni anni fa gli dedicò un ciclo, un libro e molti dibattiti (se ci fosse una olimpiade della critica cinematografica, i francesi arriverebbero sempre primi) e poi al Festival di Torino che quest'anno fa la medesima cosa. Bravi europei. Con il regista più americano che si possa immaginare. Che pure abbiamo subito compreso, studiato ed amato. Con il suo costante impegno, anche quando l'industria americana lo ha un po' marginalizzato, e la critica del suo Paese sottostimato, ci ha indicato una via. Grazie fratellino mio. Dario Argento

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