Storie di Città
Storie di Città Storie di Città SI può raccontare la storia di una città anche dal punto di vista della storia di un ospedale. Me ne sono accorto preparando, per un congresso di medicina, una breve relazione sulla storia di quello che i torinesi chiamano San Giovanni vecchio e che ora è sede del Museo Regionale di Scienze Naturali e, nella parte di più recente costruzione, di uno dei poh oncologici principali per la diagnosi e la cura dei tumori della mammella e dell'apparato digerente, dopo aver ospitato, nei lontani Anni 20 di questo secolo, le prime sperimentazioni di radioterapia nel suo pionieristico Centro Radium. Non c'è dubbio che il San Giovanni rappresenti uno dei punti di forza attorno a cui si addensa la memoria storica e l'identità dei torinesi. L'ospedale viene citato per la prima volta in un documento del 1208. Il racconto di una grande impresa sovente si fa iniziare da un piccolo e all'apparenza insignificante fatto. E' così per il Cottolengo ed è così per il San Giovanni; prendiamo il racconto che fa Goffredo Casalis: «Un canonico, dice un'antichissima tradizione, mosso a compassione di alcuni poveri infermi derelitti, cominciò a ricoverarli in una stanza del campanile del duomo; i suoi colleghi gli prestarono mano e doppio soccorso. Crescendo il bisogno, anche la cristiana commiserazione si aumentò così che, traslato il piccolo numero degli ammalati in una casa presa a pigione, si diede forma ad un ristretto ospedale». Si passò poi ad un edificio costruito nell'area dove adesso sorge il seminario arcivescovile che ben presto si dimostrò insufficiente. Si rese necessario un altro trasloco perché, dice una relazione dell'epoca, «molti personaggi grandi, et altre persone caritative, quali andavano visitare detti poveri, et fargli qualche elemosina, si astengono causante la gran puzza». Bisogna dire che nei secoli passati all'ospedale ci andavano solo i poveri. Dopo un ulteriore passaggio in un edificio vicino alla chiesa di Santa Maria in Piazza, si arriva nel 1680 alla costruzione dell'attuale maestoso edificio, su un terreno donato dalla Madama Reale Maria Giovanna e su progetto di Amedeo di Castellamonte. Molti torinesi ancora ricordano le lunghe file di letti sistemate nelle grandi gallerie disposte a croce greca, ossia con i bracci di uguale lunghezza, e all'incrocio, in modo che fosse visibile da tutti i ricoverati, l'altare. Nel frattempo erano successe molte cose; la Curia aveva chiesto al Comune di concorrere alle spese, facendolo compartecipe deh" amministrazione; il nome completo sarà perciò «Ospedale di San Giovanni Battista e della città di Torino» e il nuovo stemma avrà due icone affiancate, l'agnello del Battista e il toro d'oro in campo azzurro, arma della città». Nel consiglio direttivo dell'ospeda¬ le siederanno in eguale numero, quattro o sei, canonici del duomo e decurioni rappresentanti del Comune; presiederà però l'arcivescovo. Questo fino al 1881, quando dopo sei secoli l'arcivescovo sarà estromesso per lasciare il posto a un presidente di nomina comunale. Può essere consolante scoprire tra le vecchie carte che sempre la sanità pubblica, a causa dei suoi compiti, ha presentato bilanci in rosso. Scrive Stefano Rovere, archivista dell'ospedale: «Il 7 gennaio 1737 un Regio biglietto prescrive l'accettazione nell'Ospedale di tutti i poveri infermi per essere assistiti e curati, e quando le rendite ordinarie dell'Istituto non fossero sufficienti, dovesse il medesimo contrarre debiti, occorrendo, per supplirvi». E dire che per pareggiare il bilancio, si faceva ogni sforzo: «Il 9 marzo 1668 nasce l'Opera degli mcurabili, e viene unita a quella dei Sanabili e ciò sulla considerazione che quelli consumando le carni che servono a fare i brodi per questi, si veniva a ripartire fra le due classi la spesa che si dovrebbe fare in caso diverso unicamente per i sanabili». Altri aspetti per fortuna sono scomparsi: «Onde dare ricetto a quegli esseri infelici nati da parenti incerti, circa il 1540 si cominciava da taluni ad esporre bambini alla porta dell'Ospedale». Il carico economico dei trovatelli diventa ben presto intollerabile e si provano invano diverse soluzioni. Ci sono storie terribili come la seguente, raccontata nella prosa fredda e burocratica dell'archivista. Nel 1779 la direzione dell'ospedale si accorda con Pietro Manzolino che ha l'appalto per fabbricare le stoffe di lana per l'esercito e gli cede «trecento fighe atte al lavoro mediante il corrispettivo di un'annualità di L. 9000 ed un capitale di L. 20000 per una volta tanto. Il fabbricante ritirava le figlie e le occupava nel lanificio stabilito nella casa detta la Generala. Morto alcuni anni dopo il Manzolino, perdette l'Istituto l'egregio capitale e fu obbligato a riprendersi le stesse figlie in cattivo stato di salute». In quel giro di anni i padri Trinitari Scalzi raccoglievano fondi per riscattare i sudditi di Sua Altezza Reale che erano stati catturati e ridotti in schiavitù dagli arabi. Per trovare degli schiavi non c'era bisogno di andare tanto lontano, ma per queste trecento non c'era redenzione, erano solo delle Esposte, fighe di NN. Potevano ritenersi fortunate, c'era chi stava peggio di loro. Scrive il Cibrario nella sua «Storia di Torino»: «Degli esposti, fin dai tempi più antichi, pigliava cura il comune, e faceva loro insegnare un mestiere; e le fanciulle, quando andavano a marito, soleva sussidiare di una dote. Agli usciti di senno non s'apriva nessun ricovero. Erano custoditi dai parenti, se agiati; fatti ludibrio della plebe, se poveri».
Persone citate: Cibrario, Degli, Goffredo Casalis, Maria Giovanna, Pietro Manzolino, Stefano Rovere
Luoghi citati: Castellamonte, Torino
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