L' uhìma licenza di Gavino il poliziotto della solidarietà di Gian Piero Moretti

L' uhìma licenza di Gavino il poliziotto della solidarietà TRE MESI IN KOSOVO NELLA FORZA INTERNAZIONALE L' uhìma licenza di Gavino il poliziotto della solidarietà testimonianza Gian Piero Moretti SANREMO L'ULTIMA intervista 24 ore prima di morire. Marco Gavino, 37 anni, di Sanremo, per lungo tempo agente della polizia postale a Imperia, poi autista sulle volanti a Sanremo, era sull'aereo maledetto. Rientrava in Kosovo dopo una breve licenza, per riprendere il suo posto di poliziotto nella forza internazionale. Un forza di pace formata da agenti di 73 paesi. Gavino prestava servizio a Malishcvo, in montagna, a pochi chilometri dalla Macedonia. In tutto 26 agenti, italiani, egiziani e tedeschi, agli ordini di una giovane donna commissario, Adriana Muliere, siciliana. Drammatico era stato il suo racconto: «Ho visto di tutto, fosse comuni, gente ammazzata. Tanto odio. Odio verso i serbi. Un interprete dell'Onu è stato ammazzato perché aveva parlato in serbo. Era bulgaro, non c'entrava niente con la rivalità etnica. Per essere certi della sua etnia gli avevano chiesto l'ora in serbo. Lui aveva risposto e l'avevano steso con una raffica di kalashnicov». Un lavoro di pattuglia, giorno e notte all'interno del Kosovo, fra le montagne dove non c'è acqua, luce, cibo. «Ho visto gente affamata, gente disperata, gente spaventata. A Malishevo c'è un quartiere di serbi. Vivono protetti dai carri armati tedeschi». Marco Gavino faceva parte del gruppo sportivo della polizia di Stato di Imperia. Era un fondista, al suo attivo aveva numerose vittorie. In Kosovo aveva dovuto mettere da parte la sua passione per la corsa. Di pattuglia notte e giorno, quasi senza sosta a bordo di un fuoristrada Toyota, insieme a un poliziotto egiziano e uno tedesco. Posti di blocco, perquisizioni, arresti. «Abbiamo disarmato decine di militari dell'Uck, altri sbandati. Tutti senza un tozzo di pane in tasca, ma con il mitra luccicante, il terribile K 47. Molti dell'Uck hanno il permesso dell'Onu per portare armi. Quelli li dobbiamo lasciare andare». Il primo drammatico impat- to con la realtà del Kosovo, pochi giorni dopo il suo arrivo dall'Italia, in agosto: «Ci hanno segnalato una fossa comune, abbiamo controllato con le forze dell'Onu: dentro c'erano venti cadaveri. Quasi solo donne e bambini. Non è stato possibile sapere se si trattava di una strage compiuta dai serbi durante l'invasione o di una vendetta kosovara. Poi un'altra fossa, e un'altra ancora. Ci abbiamo fatto l'abitudi¬ ne. Così come ci siamo abituati a trovare cadaveri per la strada. Gente ammazzata a raffiche di mitra, ma anche sgozzata, massacrata a bastonate. Uomini, donne, bambini, vecchi. E' un paese dove la pietà non esiste. Solo l'odio. Un odio che fa accapponare la pelle». • Tanto lavoro, ma gli assassini sono sempre rimasti liberi. «Nessuno parla. Quelli dell'etnia delle vittime per paura, gli altri per solidarietà con i carnefici». Prima di rientrare in Kosovo, Marco Gavino è passato in redazione a «La Stampa». Voleva che i suoi amici sapessero di quella che per lui era un'avventura, più che un dovere. Ad agosto era partito con un altro poliziotto ligure, un ispettore di La Spezia. A Pristina si erano divisi, uno sulle volanti, l'altro nell'«intelligence». I «Con la gente del posto ci capiamo a gesti, fra noi parliamo in inglese. Lavoriamo in una zona dove non esistono strade, nomi di paesi, villaggi. Quando la centrale ci chiama via radio ci dà le '/ordinate, tanti gradi Nord, tanti gradi Est. Quasi fossimo in mare». Sempre con il mitra in pugno e il colpo in canna. Le ombre della notte terrorizza- no gli uomini di pallùglia. La morte e in agguato. «Non ci hanno inai sparato contro, ma troppe volte ci siamo trovati di fronte gente armata. Gente disperata, ma anche assetata di vendetta. Soprattutto gente che non ha nulla da perdere. Un po' ci rispettano, ma non si sa mai a cosa si va incontro. Li disarmiamo, li schediamo. Quando non sono in regola li affidiamo alla giustizia messa in piedi dal l'Onu. Giudici jugoslavi e dei Paesi che fanno parte della forza di paci;. Qui non c'è più nulla. Distrutte l'anagrafe, bruciati gli uffici. Gente senza nome, senza identità, senza storia». Giovedì sera Marco (invino ha salutato i genitori che vivono in via Galilei a San Remo, poi ha preso il treno per Roma. E l'indomani alle 9 si è imbarcato sull'ATH 42 diretto a Pristina. Aveva chiesto di andare in missione in Kosovo anche perché amava viaggiare. Con iservizio sulle volanti in quella terra martoriata aveva raggiunto due obbiettivi, soddisfatto due passioni: quella dandare a conoscere un Paesnuovo, restando fedele allsua uniforme, al suo dovere dpoliziotto. «L'ho fatto anchper un senso di solidarietà di giustizia. E' un Paese senzregole, senza legge, abbando nato al suo destino. Sulla volante contribuisco a riportare un barlumi! di legalità dove esisto solo la legge del Kalashnicov». Due mesi di corso a Pristina, per non essere gettato nella mischia impreparato, l'oi il trasferimento a Malishevo. Mesi di servizio, la prima licenza a casa. E la tragedia del ritorno. «Io sto in montagna, dove non c'è acqua né luce né cibo. Giro su un fuoristrada, con un egiziano e un tedesco» «Lo faccio per dare il mio contributo a riportare un barlume di legalità dove esiste soltanto la legge del Kalashnikov» L'aeroporto di Pristina Donatella Vcrgan, di Terres des Hommes

Persone citate: Adriana Muliere, Marco Gavino