«Una storia con troppe bugie» di Francesco La Licata

«Una storia con troppe bugie» «Una storia con troppe bugie» Lo Bianco-, perché a 91 anni rompo il silenzio Francesco La Licata inviato a Palermo GIOVANNI Lo Bianco compirà 91 anni il 7 dicembre. Ha fatto il carabiniere dal luglio 1928 fino al gennaio I 1959, anno in cui si è congedato dopo essere stato protagonista delle più importanti inchieste siciliane di quel periodo e nemico giurato del bandito «Turiddu» Giuliano. Perché a 91 anni, cavalier Lo Bianco, ha voluto rompere un silenzio così lungo? «Troppe cose sbagliate sono state dette sulla nostra storia. Troppe speculazioni sono passate nel silenzio. La strage di Portella non è una strage di Stato. Possono essersi verificati episodi non certo esaltanti, l'azione istituzionale può essere stata incostante, ma da questo a parlare di strage di Stato... E poi ho voluto rendere omaggio ai 101 caduti di quella guerra, morti nell'indifferenza generale e finiti nell'oblio. Non mi risulta vi siano cerimonie per commemorare quei figli ammazzati da un volgare bandito che una campagna di stampa e l'interesse politico hanno trasformato in una sorta di mito». Lasciamo ai lettori il gusto di scoprire questa sua "verità inedita", che pure si scontra con altre "verità" addirittura codificate nei libri di storia. Parliamo di lei, maresciallo. Una bella avventura, la sua vita. «Ho scelto di fare il carabiniere quando ho letto negli occhi di mio padre l'umiliazione e l'impotenza di fronte ad alcuni banditi che lo derubavano». Un carabiniere da "squadra speciale". «Diciamo che mi sono dato da fare, inventandomi sempre qualcosa per sopperire alle carenze strutturali. Non avevamo certo le microspie e allora nelle celle coi delinquenti mettevamo un carabiniere mimetizzato. Alcune volte ho fatto carpire segreti da militari nascosti sotto il tavolaccio delle camere di sicurezza. Mi sono infiltrato nelle bande: sono stato quasi un mese alla macchia insieme con la cosiddetta gang di Niscemi. Ho scoperto gli autori di una rapina clamorosa a Porticello fingendomi venditore di ricci vicino a una bettola. Ho dovuto e questo è ciò che mi dispiace usare le armi per difendere me e i miei collaboratori, come quando ingaggiai un conflitto a fuoco, in piena via Ruggero Settimo, con due pericolosi latitanti». Nel libro parla anche di personaggi importanti? «Ho conosciuto Dalla Chiesa, quando comandava il presidio di Corleone. Ho conosciuto Mauro De Mauro, il giornalista dell'Ora scomparso a Palermo, quando si occupava del "caso Tandoy". Sono stato invitato dal prefetto di casa Einaudi, Chiuromonte, che mi chiedeva se avessi ricevuto disposizioni su come comportarmi al processo di Viterbo. Ho conosciuto il leader del pei siciliano Girolamo Li Causi, quando rischiò di essere sequestrato da Salvatore Giuliano. Stentava a credere alle mie parole e allora gli proposi di ascoltare dalla viva voce di uno dei fermati che avevo ancora in caserma. Tentennò, ma non venne. Mandò un suo emissario, il giornalista Speciale, che ascoltò il racconto del fermato, rimanendo senza parole». Maresciallo Lo Bianco, lei ha avuto due superiori, i colonnelli Luca e Paolantonio, coi quali ha condiviso tutto: successi e sconfitte. Con altri, come con l'ispettore Verdiani, non v'è stato feeling. E' un po' la storia degli apparati investigativi in Italia, scoordinati, in competizione... «Senta, io so solo che ho rischiato in un periodo in cui i carabinieri non potevano uscire in perlustrazione perché non avevano le scarpe. Non nego che vi fossero gelosie e interessi di carriera, ma la maggior parte di noi lavorava sodo e si ottenevano bei risultati». E' vero che scendevate a patti con la mafia? «Utilizzavamo qualche confidenza, ma sempre nei limiti della legge. Le posso dire di essere stato aiutato, nella caccia a Giuliano, da Nitto Minasela. E porto ancora un rammarico: i miei superiori non furono in grado di rispettare le promesse, Minasola fu abbandonato a se stesso e venne ucciso molti anni dopo, perché la mafia non dimentica. Altri mafiosi mi hanno dato confidenze: ricordo che Giuliano sequestrò un possidente protetto da Vincenzo Rimi e Vanni Sacco, veri patriarchi della mafia. I due andarono a portare il riscatto (25 milioni degli anni 40) personalmente, nel tentativo di ottenere almeno uno sconto e poter, quindi, dimostrare di "contare qualcosa". Ma Giuliano pretese fino all'ultimo soldo. Rimi fece piccole ammissioni, Vanni Sacco - che si fidava di più - mi racconto praticamente tutto. Ma adesso basta, sennò vi svelo tutto il libro».

Luoghi citati: Corleone, Italia, Niscemi, Palermo, Viterbo