Depresso chi non è all'altezza dei desideri

Depresso chi non è all'altezza dei desideri Depresso chi non è all'altezza dei desideri RECENSIONE Marco. Belpoliti Due tipi d'intervento: psicologia e psicoanalisi parlano di persona da «ristrutturare»; sul fronte medico l'individuo in panne è essenzialmente considerato un «malato da curare». Gli studi di Borgna e Galimberti, i film di Almodovar e Ballarci FINO agli Anni Quaranta di questo secolo la depressione era ritenuta una sindrome comune a gran parte delle malattie mentali. Nei manuali medici molti dei disturbi somatici e neurovegetativi (insonnia, inappetenza, diminuzione dell'interesse sessuale) erano ancora trattati come secoli prima, quando la medicina galenica parlava di bile nera e melanconia. La progressione depressiva, che va dai disturbi dell'affettività fino alle tendenze suicide e ai desideri di morte, apparteneva a un vasto e inquieto pelago delle alterazioni psichiche. Poi, a partire dagli Anni Settanta, la psichiatria dimostra, dati alla mano - oltre il 3% della popolazione mondiale -, che la depressione è il disturbo della personalità più diffuso. Cinquantanni fa era invece la psicosi a monopolizzare l'interesse psichiatrico e psicoanalitico. Perché questo mutamento? La ragione, suggerisco Alain Ehrenberg in La fatica di essera se stessi. Depressione e socie tà è che la depressione è «una forma di malattia che si presta particolarmente bene alla comprensione dell'individuo contemporaneo e dei nuovi dilemmi che lo abitano»; la sua centralità nel paesaggio della psichiatria risiede nel fatto che «ieri come oggi gli psichiatri non sanno come definirla». Nel dizionario di Psicologia riedito dalla Garzanti (pp. 1239, L. GB.000) e curato da Umberto Galimberti, la voce «Depressione» occupa dieci fitte colonne, e la definizione termina con una semiologia delle fonne depressive scandita in quindici descrizioni di quadri clinici utilizzati noi corso del secolo. Elirenberg, che è un sociologo e si è occupato a fondo di psicofarmaci e del loro uso sociale, sostiene che la depressione è una tragedia dell'insufficienza, RECENMaBelp IONE co. liti che si contrappone alla nevrosi ottocentesca, che è invece un dramma della colpa. L'uomo depresso è l'uomo senza guida della società contemporanea, «intimamente spossato dal compito di diventare semplicemente se stesso e tentato di sostenersi con l'additivo dei farmaci o dei comportamenti compulsivi». Se nelle società del passato la felicità consisteva nel sapersi uniformare ai propri doveri, oggi la nuova retorica sociale pone l'accento sul fatto che la felicità consiste nel sapersi uniformare ai propri desideri, indicazione che fa dell'autostima l'obiettivo principa- le. «La vera autenticità non sta nell'essere come si è, ma nel riuscire a somigliare al sogno che si ha di se stessi», afferma uno degli emblematici personaggi di Tutto su mia madre, l'ultimo film di Pedro Almodovar, che col suo racconto paradossale e melodrammatico riesce bene a raffigurare la nuova grammatica della vita interiore, disponibile ad ampi strati sociali: l'intimità non è più una faccenda privata. Le nuove nonne sociali impongono codici che stimolano l'iniziativa individuale, cosi che ognuno di noi è invitato a diventare se stosso, come noi dettato di Nietzsche, vero teorico dell'uomo compulsivo. La depressione è una malattia sociale nella misura in cui è la complessa risposta a questa nuovo codice: «Il depresso non si sente all'altezza, è stanco di diventare se stesso». Alla dialettica tra consentito/proibito che fino agli Anni Sessanta aveva nella trasgressione il suo culmine negativo, ma anche affermativo, di se stessi - si è passati nel corso dogli Anni Settanta alla coppia possibile/ impossibile. La depressione, dice Ehrenberg, è una malattia della responsabilità. Il depresso è un uomo in panne, incapace di decidere, di agire. E nonostante che siano infinite le ragioni per cui si cade in uno stato depressivo - la scomparsa di una persona cara, un fallimento amoroso o affettivo, uno scacco professionale e lavorativo -, è indubbio che le società del passato imponevano un conformismo e un automatismo dei comportamenti che metteva più facilmente gli individui al riparo dalla mala sorte, dagli eventi negativi dell'esistenza. Oggi le nostre società occidentali conclamano, scrive l'autore, lo spirito di iniziativa individuale e l'intrapren- donza mentale, così che sotto il profilo della storia individuale non lia più molta importanza se la depressione designi un male di vivere o ima malattia vera e propria. Ehrenberg traccia una storia della depressione attraverso la psicologia ottocentesca, la psichiatria del Novecento e il dibattito psicoanalitico. Molto interessanti, per quanto incentrate sulla realtà francese, sono in particolare i capitoli sul trattamento fannacologico, che contengono anche una breve storia del Prozac (« non è la pillola della felicità, ma la pillola dell'iniziativa»). Mentre la psicologia e la psicoanalisi si preoccupano per il crollo psicologico del depresso, che trattano come una «persona da ristrutturare», sul fronte medico questi rimane essenzialmente un «inalato da curare». Quale delle due linee curative ha ragione? Dice Erhenberg che se il disturbo mentale non è fatto solo di sintomi ma anche di modi di essere nel mondo, «la depressione può essere vista come l'esatto opposto di quello strano pathos dell'essere simili a se stessi - e non più identificarsi con - che ha pervaso la nostra società a partire dai primi Anni Sessanta». La depressione definisce in buona sostanza i problemi di questa «nuova normalità». Per descrivere questo cambiamento di stato, attorno a cui il libro ruota, l'autore ricorre a due figure mitiche: Edipo, che raffigura il vecchio senso di colpa borghese, definito dalla Legge e dalla lotta per liberarsene; mentre Narciso rappresenta il timore di non essere all'altezza, il senso di vuoto e di impotenza che ne risulta. La depressione fonde la malinconia dell'età classica con la passione egualitaria delle società democratiche, dove, per dirla con Andy Warhol, «ognuno ha diritto al suo quarto d'ora di celebrità». Viviamo in quella che Cristopher Lash ha definito La cultura del narcisismo (Bompiani 1981) e s'identifica in una figura di cui la clinica psichiatrica e psicoanalitica ci hanno fornito un ritratto convincente, il borderline, il quale attraversa senza posa i tenitori dell'ansia e dell'angoscia. Di queste lande desolate, Eugenio Borgna, ottimo prefatore del libro di Ehrenberg e autore di Noi siamo un colloquio (in uscita da Feltrinelli, pp. 224, L. 30.000), ha tracciato un'importante mappa in he figure dell'ansia (Feltrinelli 1998). Nell'ultimo capitolo del suo libro il sociologo francese ricorda come la depressione più che un infortunio affettivo sia oggi un modo di vivere; la posta in gioco per l'ir ividuo moderno è quella che nasce dallo scontro tra la nozione di «possibilità illimitata», che egli ricava dalle pagine di Crash di Ballard, e quella di non-padroneggiabile. A ispirare questo interessante saggio sulla depressione non è stato un libro di filosofia o di psicologia, bensì il cinema di David Cronenberg, la sua cinepresa chirurgica che esplora le figure dell'uomo «tutto possibile», perlustrando quel continente del possibile che ha preso forma una volta scomparsi i vecchi codici morali, le zone delle «trasgressioni senza interdetti». In quest'epoca delle possibilità illimitate - si pensi alla trasformazione in androide di Michael Jackson, o alla manipolazione degli umori mediante sostanze chimiche teorizzata dalla fannacologia più spinta - la depressione designa il confine dell'immanipolabile: le sostanze antidepressive di cui si fa ampio uso non guariscono l'individuo, perché guarire significa essere capaci di sofferenza, di sopportazione. Ehrenberg mette bene in luce i crucci della nostra psicologia collettiva, le illusioni e gli stereotipi di quella che chiamiamo «crisi della modernità». Depressione e dipendenza mettono bene in luce come all'interno dell'individuo vi sia «un lembo d'inconoscibile»: «La lezione della depressione è questa: ridurre del tutto la distanza tra sé e sé è impossibile, in un'esperienza antropologica nella quale l'uomo è l'unico proprietario di se stesso e l'unica fonte della propria azione». Per questo, se si assume la responsabilità di essere se stessi, bisogna saper anche curare la patologia che ne deriva. E conclude: «L'uomo deficitario e l'uomo compulsivo sono le due facce di questo Giano». Marisa Peredes e Cecilia Roth nel film di Almodovar «Tutto su mia madre» Oltre ai saggi di Ehrenberg (Einaudi) e Borgna (Feltrinelli), sul tema della depressione è in libreria «Storie di ordinaria resurrezione (e non)» di Serena Zoli (Longanesi). Agli «Scenari della malinconia» è dedicato il convegno in programma a Roma dal 10 al 12 novembre, con James Hillman (tel. 06/6832770) IL DISTURBO DELLA PERSONALITÀ* PIÙ' DIFFUSO AL MONDO: ALAIN EHRENBERG ANALIZZA LA «FATICA DI ESSERE SE STESSI», LA TRAGEDIA SOCIALE DI CHI SI SENTE INADEGUATO Alain Ehrenberg La fatica di essere se stessi. Depressione e società trad. diS. Arecco, revisione diD. Tarizzo Einaudi, pp. 320, L.35.000 SAGGIO

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