SE LA CASA BIANCA FATICA A RICORDARE I NOSTRI NOMI di Aldo Rizzo

SE LA CASA BIANCA FATICA A RICORDARE I NOSTRI NOMI OSSERVATORIO SE LA CASA BIANCA FATICA A RICORDARE I NOSTRI NOMI Aldo Rizzo E, divertente, ma anche istruttivo, l'infortunio in cui è incorso George Bush jr., forse il più forte candidato alla successione di Clinton, durante un'intervista a una tv locale del Massachusetts. Gli hanno chiesto a bruciapelo i nomi dei capi di governo d'India, Pakistan, Taiwan e Cecenia, e il povero Bush è riuscito a cavarsela solo col terzo. «Bocciato in politica estera», è stato subito detto. E c'è anche chi ha visto nell'ignoranza del candidato una forma di disinteresse i>er ciò che accade fuori dall'America, insomma una premessa d'isolazionismo. Suvvia, non esageriamo. I nomi in realtà erano difficili: Vajpayee, Musharraf, Lee Tenghui, Maskhadov. E uno Bush lo ha azzeccato. A parte questo, bisogna porsi nell'ottica di un candidato alla presidenza degli Stati Uniti, che bada fondamentalmente alle questioni di politica interna, perché sa che su quelle sarà giudicato dagli elettori dell'America «profonda». Ricordo un'intervista che mi capitò di fare (con il collega Franco Venturini) a Bush senior, il padre di George jr., quando era ancora il vicepresidente di Reagan, ma già pensava a succedergli. Lui era già esperto di politica estera, ma alle nostre domande sui rapporti con l'Urss, sull'equilibrio nucleare ecc. a un certo punto rispose estraendo a sorpresa il portafogli da una tasca dei pantaloni. Lo poggiò sul tavolo e disse: è lui che decide le elezioni, non la politica estera. È quanto avrebbe detto anche Clinton nel 1992, quando, cercando la chiave della campagna elettorale, scrisse sulla lavagnetta alle sue spalle: «It's the economy, stupidi». E infatti Clinton non ha infierito sull'infortunio di George jr., ha detto che «se diventerà presidente, quei nomi li imparerà presto». Quanto all'isolazionismo in generale, c'è un po' di fumo e nient'altro. Intanto la questione non riguarda né Bush, repubblicano di centro, né Gore, il candidato de¬ mocratico, perché sono entrambi «internazionalisti», cioè contrari per principio all'isolazionismo. Rispetto a ciò, aver memorizzato 0 meno dei nomi stranieri non significa nulla. Sono semmai sotto tiro quei settori conservatori del Congresso che hanno bocciato il bando dei test nucleari e si rifiutano di pagare i debiti degli Usa con l'Onu. Ma anche per loro parlare d'isolazionismo è eccessivo. La parola esatta è «unilateralismo», cioè volontà di non legarsi le mani con troppi impegni formali e di conservare la libertà d'azione della superpotenza su ogni problema o crisi internazionale. Anche questo è sbagliato, ma non va confuso col vecchio isolazionismo degli Anni Venti e Trenta, che oggi, nel mondo globalizzato, sarebbe oggettivamente impraticabile. Un'ultima annotazione riguarda noi europei. Dice Samuel Berger, il consigliere di Clinton per la sicurezza: «Ci accusano contemporaneamente di egemonia e d'isolazionismo. Com'è possibile?». Infatti non è possibile. 11 dilemma americano non è tra interventismo e isolazionismo, ma tra unilateralismo e multilateralismo, cioè tra il pensare di risolvere i problemi del mondo da soli o con gii alleati, nelle organizzazioni internazionali. E gli europei? Devono dare una mano, organizzando se stessi come partner forti e credibili, dei quali gli Usa non possano fare a meno. Se no, il futuro presidente, chiunque sia, farà fatica a ricordare anche i nostri nomi. 5r--.1l ut ->rtr> (••>*'