TALLEYRAND re del doppio gioco di Paolo Mieli

TALLEYRAND re del doppio gioco Talento e spregiudicatezza: un saggio rivaluta il politico francese che seppe restare a galla tra Rivoluzione e Restaurazione TALLEYRAND re del doppio gioco Paolo Mieli LI storici sono concordi: con Charles Maurice de Talleyrand-Périgord si è avuta a cavallo tra il Settecento e l'Ottocento la materializzazione del doppio. Si può tranquillamente dire che negli ultimi duecento anni non ci sia stato personaggio più controverso di Talleyrand. Controverso nel senso che l'unanime apprezzamento per il suo talento politico è sempre stato, più o meno ampiamente, bilanciato da una severa critica alla sua capacità di adattarsi alle varie fasi di quel lungo terremoto che scosse la Francia tra la presa della Bastiglia (1789) e la definitiva caduta di Napoleone (1815). Ventisei anni lungo i quali Talleyrand fu tra i pochissimi che riuscirono a restare in sella. E spesso ad avere in mano le redini del destriero. Ciò che, come dicevamo, gli è valso da parte degli studiosi d'ogni tendenza un diffuso riconoscimento per come seppe tenere quelle redini. Sempre però accompagnato da una non nascosta manifestazione di forte ripulsa per la sua spregiudicatezza. E, appunto, per la sua vera o presunta doppiezza. Nella prima metà di questo secolo uno studioso ai suoi tempi molto apprezzato (ma oggi pressoché dimenticato), Gu' glielmo Ferrerò, dedicò a Talleyrand e in particolare alla sua opera a Vienna tra il 1814 e il 1815 un libro, Ricostruzione, che adesso Sergio Romano ha il grande merito di riproporci per i tipi dell'editore Corbaccio. Ferrerò era nato a Portici nel 1871. Fece studi di sociologia. Fu allievo e genero di Cesare Lombroso. Il suo positivismo, in tempi in cui la vita culturale italiana era dominata dalla reazione antipositivista di Benedetto Croce e Giovanni Gentile, gli costò l'emarginazione dall'università, anzi il non ingresso nel mondo accademico. Ma un suo trattato in cinque volumi su Grandezza e decadenza di Roma scritto tra il 1901 e il 1907 ebbe un grandissimo successo. Il suo nome fu, assieme a quello di Gabriele D'Annunzio, il più celebre tra quelli degli autori italiani che ebbero la fortuna di esser conosciuti anche fuori dai nostri confini. Benito Mussolini confidò a un giornalista che quei cinque tomi ferreriani sulla Roma antica avevano sempre avuto un posto stabile sulla sua scrivania. Eppure Ferrerò, dopo qualche interesse iniziale, non si lasciò attrarre dall'avventura mussoliniana. Anzi nel 1925 diede alle stampe un libro, La democrazia in Italia, dove lasciò scritte parole di grande preveggenza su come quell'avventura si sarebbe conclusa: «Come tutti i dittatori, anche questo sarà legato imbavagliato e tradito dai suoi amici fedelissimi, dai suoi ammiratori più ardenti, dai suoi ministri, dai suoi funzionari. Incomincerà è già incominciato (qui, va osservato, Ferrerò è in anticipo, anzi in eccesso di anticipo sui tempi, ndr.) - tra lui e coloro che dovrebbero essere gli esecutori della sua volontà dittatoriale, il solito gioco di tutte le dittature e dei suoi servi di alta e bassa livrea: rovesciare sul dittatore tutte le responsabilità, togliendogli sotto sotto, per passarli ai servitori, tutti i poteri». Ferrerò resterà in Italia fino al 1930, anno in cui l'Università di Ginevra e l'Institut Universitaire des Hautes Etudes Intemationales gli offriranno una cattedra di storia. Nel 1936 pubblicherà a Parigi il libro Avventura (ri- proposto sempre ad opera di Sergio Romano per Corbaccio tre anni fa) sulle campagne di Napoleone in Italia. Nel 1940 darà alle stampe il testo su Talleyrand di cui qui si parla, Ricostruzione. Al momento in cui i nazisti invasero l'Europa, Ferrerò pensò al suicidio. Ma reagì alla crisi di sconforto e, prima di morire, nel 1942 portò a compimento l'ultimo volume di questa trilogia, Potere, che ci auguriamo di veder ripubblicato al più presto. Anche perché le sue riflessioni sul «principio di legittimità» ci sembrano utili ad essere estese oltre i confini del campo specifico da cui furono originate. E offrono un'utile lezione per capire la politica. Ferrerò, secondo la sintesi di Sergio Romano, «è profondamente convinto che gli Stati sopravvivono soltanto quando la trasmissione del potere avviene secondo regole, per quanto possibile collaudate dal tempo e soprattutto accettate dalla maggioranza dei cittadini. Certo, la storia è piena di tiranni e rivoluzionari che scalzano il vecchio potere e ne prendono il posto. Ma il loro regime potrà dirsi sicuro soltanto quando avranno saputo conquistare il più difficile dei trionfi: la legittimità». E la legittimità, aggiungiamo noi, la si ottiene mantenendo il consenso della propria parte ma conquistando, in aggiunta ad esso, un «riconoscimento consenziente» da quelle che furono - e possono anche continuare ad essere - le parti avverse. Una rivoluzione, una guerra hanno un senso solo nel momento in cui, accantonata la violenza, i vincitori riescono a persuadere i vinti (o forse qualcosa di più: tutti gli altri, tutti coloro che per qualsiasi motivo non fanno parte della ristretta élite dei vincenti) del fatto che nei nuovi assetti per loro ci sarà un ruolo non marginale. A convincerli che potranno concorrere, partecipare, avere benefici, quantomeno vivere tranquilli. Se la battaglia, abbia anche preso le sembianze di lotta del bene contro il male, deve durare in eterno, se gli Stati o anche soltanto gli individui, dovranno continuare a sentirsi minacciati (sia pure, lo ripetiamo, nel nome di una causa giusta) non ci sarà mai quel «riconoscimento consenziente» che solo può dare la legittimità. E prima o poi il regime senza legittimità è destinato ad essere travolto. Talleyrand fu l'uomo che capì tutto questo. Era nato nel 1754 da un'antica e illustre famiglia di nobiltà militare. Poiché aveva un piede difettoso i suoi, non potendo destinarlo alle armi, lo avviarono, per così dire, alla carriera ecclesiastica. Carriera a cui cercò di ribellarsi con ostentazione di scandali. E nella quale non conobbe grandi fortune tant'è che nel 1788, a trentaquattro anni, era ancora l'abate di Périgord. Fu consacrato vescovo d'Autun, per intercessione del padre - in punto di morte - su Luigi XVI, soltanto nel gennaio dell'89, poche settimane prima dell'inizio della Rivoluzione Francese. Nell'ottobre di quello stesso anno sarà lui che, entrando in urto con la Chiesa cattolica, proporrà la secolarizzazione dei beni del clero. Sembrerebbe la storia di un chierico mezzo fallito che appena può si prende una rivincita con la casa madre che non lo aveva amato. Ferrerò, con acume, capovolge questo stereotipo, questo modo ampiamente diffuso di guardare ai primi passi adulti di Talleyrand. Partendo dalla constatazione che, se solo avesse voluto, quel giovane avrebbe potuto fare una grande carriera ecclesiastica senza «rinunciare a nessuno dei piacere più proibiti». «Se fosse stato veramente un cinico o un depravato, avrebbe nascosto i propri vizi, invece di ostentarli». Tanto più che, con il nome che portava, avreb- be potuto diventare, nel giro ài pochi anni, «arcivescovo di Parigi e cardinale». Ecco dunque che la «vita scandalosa del giovane abate» nel decennio che precedette la Rivoluzione Francese assume, secondo Ferrerò, le sembianze di una ribellione ai suoi tempi. Come se Talleyrand intendesse rivolgersi al suo secolo con queste parole: «M'hai fatto prete per forza, sia: ma non chiedermi di recitare per il pubblico la commedia del falso buon prete. Son deciso a non recitarla neppure per la berretta rossa e per la sedia episcopale più illustre di Francia. Prete forzato sarò un cattivo prete a dispetto di tutto il mondo». Questa «rivolta» conquista Ferrerò: «Mi sembra impossibile di volerla attribuire ad una depravazione sfrontata», scrive: «Le vecchie aristocrazie producono qualche volta degli uomini e delle donne che per la loro fierezza e il loro coraggio non possono né piegarsi né venire a patti quando si vuol violentarli: ed eroici o insensati, qualche volta insensati ed eroici, si rivoltano sfidando il rischio supremo». Il Talleyrand di Ferrerò, dunque, non è un cinico opportunista che si predispone fin dalla giovane età a vivere da sughero, a galleggiare per il lungo periodo della Rivoluzione Francese, dell'età napoleonica e quella della restaurazione fino all'avvento di Luigi Filippo nel 1830. Anzi, è un grande ribelle della prim'ora al quale è giustamente riconosciuto un ruolo da protagonista nella prima fase rivoluzionaria successiva al1-89. Fino al 1792 quando Talleyrand intuisce che prendendo la via del terrore la rivoluzione si sta allontanando dal traguardo della legittimità e ottiene di essere mandato come diplomatico a Londra. «Dove cerca di servir la Rivoluzione, tenendosene a una prudente distanza, ma in una maniera originale e inattesa». La «maniera originale e inattesa» è quella contenuta nel suo Memoriale sui rapporti attuali della Francia con gli altri Stati d'Europa. Memoriale in cui Talleyrand suggerisce al suo e agli altri Paesi del continente eh smetterla con le guerre e di lasciar libere le colonie proprio al fine di trovare la via della «legittimità». Un piano clamorosamente «inattuale» ma altrettanto strepitosamente «geniale». «Talleyrand», sottolinea Ferrerò, «consiglia alla Rivoluzione di deporre le armi per sempre, proprio al momento in cui essa sta per impegnarsi nella più lunga, più vasta e piti sanguinosa guerra di conquista e di equilibrio del diciottesimo secolo». Eppure proprio in questa inattualità sta la sua grandezza che spiega come sarà possibile a epiesto personaggio avere una durata politica che sopravviverà di un decennio al Congresso di Vienna. Il Talleyrand di Ferrerò, anticipando sugli avvenimenti, scopre uno dei più grandi segreti della storia, la ragione per cui le guerre della Rivoluzione non potranno mai concludersi in una pace definitiva. Questa ragione sta nel fatto che «i due avversarli rappresentano principii inconciliabili, diffidano l'uno dell'altro, non parlano la stessa lingua come se (fossero) cristiani e musulmani; e perché la Rivoluzione, abbagliata dalla fisica della forza e dal successo apparente della guerra senza regole non riconosce più la vera natura della forza e dei suoi limiti». Essa crede vincendo le battaglie di poter ottenere tutto. E invece... Si dovrebbe incidere sulla porta di ogni ministero degli Affari esteri un cartello che contenga le seguenti parole: «Il risultato delle anni è momentaneo, mentre l'odio sussiste». Osservazioni geniali sulla guerra. Sulla rivoluzione. Sulle rivoluzioni di ogni tempo e di ogni tipo. Sulla politica in senso lato. Finito il Terrore, nel 1796 Talleyrand sarà richiamato a Parigi da Barras. E l'anno successivo sarà nominato ministro degli Esteri. Favorirà l'accordo tra Bonàparte e Sieyès e il colpo di Stato del 18 brumaio. Napoleone ne avrà sempre una grandissima stima. Nel 1804 sarà nominato Gran Ciambellano. Nel 1806 Principe di Benevento. L'anno successivo lascerà la guida degli Esteri perché in disaccordo con la politica militar espansionistica di Napoleone. Ma rimarrà al suo fianco come ascoltatissimo consigliere. Ed è in questa veste che consumerà il «tradimento dì ErfUrt». Una vicenda alla quale Ferrerò presta un'attenzione tutta particolare. Si tratta di questo: nel 1808 Napoleone vuole concludere un trattalo con la Russia per mettere l'Austria con le spalle al muro. Convoca a Eri un io zar Alessandro 1 e porta con se Talleyrand per quella delicatissima missione da cui dipendono le sorti della sua politica (il successivo scontro con la Russia segnerà, com'è noto, l'inizio della sua fine). Ma ad Erfurt, segretamente Talleyrand incontra Alessandro e con tutte le forze lo incoraggia a resistere alle pressioni di Napoleone. Riuscendo nell'intento. Ferrerò osserva che il «Talleyrand della tradizione», cioè quello che dovrebbe corrispondere allo stereotipo che la storia ci lui tramandato sul suo conto, «avrebbe potuto tradire Napoleone quando avesse avuto un minimo rischio e un grosso vantaggio; non l'avrebbe mai nudilo, come ha fatto il vero Talleyrand, con un rischio enorme e senza alcun vantaggio». E allora'.' Altro che opportunista. Il nostro fu si un campione di doppiezza. Ma ispiralo a un rigore politico altissimo. Rigore politico e probabilmente anche etico. Sapeva che il tragitto di una rivoluzione verso i lidi della legittimità è complicato, tortuosissimo. Ma era capace di accorgersi quando il Paesi- prendeva una direzione di marcia che portava in senso contrario rispetto alla meta. E, come aveva fatto nel '92 con Robespierre, si tirava da parte spiegando i motivi del suo dissenso. Da quel momento avrebbe lavorato per rimettere il carro sulla retta via. Anche a costo di rischiare. Quel che di Erfurt colpisce Ferrerò è infatti più il rischio del tradimento. Talleyrand corre un pericolo, un grave pericolo. Ma come era accaduto nel '96, anche qui gli uomini del dopo saranno costretti a far ricorso alla sua intelligenza e al suo «spirito costruttivo» per costruire, appunto, la stagione successiva. Così viene chiamato con un ruolo da protagonista al congresso di Vienna dove è capace di individuare il nocciolo di quel che è necessario per rimettere in equilibrio l'Europa: «Far cessare la grande paura». Talleyrand riporta sul trono di Francia un Borbone e, a Vienna, promuove il patto segre to tra Austria e Gran Bretagna guidando con mano i suoi interlocutori alla comprensione di quanto la «paura» sia nemica della «legittimità». Una guerra, una rivoluzione che lasciano dietro di se aree di apprensione, persone o gruppi di persone clic si sentano in qualche modo minacciate, non potranno mai allungare il braccio per cogliere il frutto di quel che e stato fatto Il sangue e le lacrime versati saranno del tutto inutili se qualcuno riterrà, a ragione o a torto, di non essere sicuro, di poter essere chiamato da un momento all'altro a versare ancora sangue, ancora lacrime. Altro che restaurazione. Quella di cui Talleyrand e stato artefice fu la costruzione «con materiali vecchi e concetti nuovi» dell'edificio politico europeo. E la descrizione della sua attività di grande politico, l'approfondimento delle sue intuizioni che ci offre Ferrerò sono ricchi di spunti per riflettere sul mancato compimento di molte stagioni rivoluzionarie. Non cinico opportunista ma lungimirante fondatore dell'Europa moderna grazie alle geniali intuizioni sul «principio di legittimità» come bussola per i governanti Disegno di Matteo Pericoli. Sotto. Charles Maurice de Talleyrand: a lui è dedicato il saggio di Guglielmo Ferrerò, ripubblicato a cura di Sergio Romano per il Corbaccio. A sinistra. Paolo Mieli