E in ritardo nacque la «Cosa» di Fabrizio Rondolino

E in ritardo nacque la «Cosa» DALLA FALCE E MARTELLO ALLA QUERCL4 QUINDICI MESI DI 5iB"ÀtTlTÒ I §£<f?NTRI E in ritardo nacque la «Cosa» Dieci anni fa la «svolta» della Bolognina analisi D Fabrizio Rondolino OMENICA 12 novembre 1989 il segretario del Pei Achille Occhetto sta trascorrendo il fine-settimana a Castel San Pietro, vicino a Imola, dove sua moglie, Aureliana Alberici, ha una casa. Quel giorno alla Bolognina si celebra l'anniversario di una battaglia partigiana. Occhetto, a sorpresa, decide di andarci. Lo accompagna William, l'ex, partigiano che da sempre «scorta» il segretario del partito a Bologna e dintorni. Nessuno sa della presenza di Occhetto: non ci sono le televisioni, gli unici giornalisti presenti sono due redattori locali dell'Ansa e dell' Unità. Occhetto parla a braccio: «Viviamo tempi di grande dinamismo», dice. Tre giorni prima è caduto il Muro di Berlino. Il segretario del Pei cita Gorbaciov, che aveva scelto proprio i veterani della seconda guerra mondiale per annunciare la perestrajka. Dice: «E' necessario andare avanti con lo stesso coraggio che allora fu dimostrato nella Resistenza». Quando Occhetto finisce di parlare, i due giornalisti presenti gli chiedono se ciò che ha appena detto lascia presagire che il Pei cambierà nome. «Lascia presagire tutto - risponde Occhetto -. Stiamo realizzando grandi cambiamenti e innovazioni». La «svolta» nasce così. Nessuno ne è informato, molti neppure capiscono. «Il Pei cambierà nome? "Tutto è possibile"», titolerà l'indomani l'Unità su tre colonne a centropagina. Nei giorni e nei mesi a venire molti rimprovereranno ad Occhetto questo modo di procedere. Ma Togliatti con la «svolta di Salerno» o Berlinguer con lo «strappo» non s'erano comportati diversamente. D'altra par¬ te, del cambiamento del nome del Pei si discuteva già da tempo: Claudio Petruccioli, allora braccio destro di Occhetto, ha rivelato di recente che a metà ottobre una riunione informale del gruppo dirigente affrontò proprio questo problema. Il punto dunque è un altro: come mai così tardi? L'Est europeo era infatti in piena rivoluzione. Il Pc ungherese s'era già ribattezzato «socialista» e aveva chiesto l'adesione all'Internazionale. Il Muro era caduto. Il bulgaro Zhivkov, per trentacinque anni al potere, se n'era andato. Il Pei fu insomma fra gli ultimi a porsi il problema. E per un motivo evidente: il gruppo dirigente di Botteghe Oscure era convinto che la peculiarità del Pei lo ponesse al riparo dal crollo dell'Est. Così naturalmente non era. Ma fu proprio questo vizio d'origine a condizionare gli sviluppi della «svolta» e a minarne l'efficacia: lo scioglimento del partito impiegò un anno e mezzo e due congressi per compiersi, e alla scelta più naturale - il ricongiungimento della famiglia socialista italiana separatasi a Livorno nel '21 - si preferì la strada del cosiddetto «oltrismo», cioè quel volersi porre «oltre le tradizioni comunista e socialdemocratica» che creò non poca confusione e che, a guardar bene, è all'origine delle odierne ipotesi uliviste di «partito democratico». La «svolta», ad ogni modo, fu un vero choc. E anche questo, a dieci anni di distanza, fa riflettere. La psicoterapeuta Gianna Schelotto scrisse sull'Unità un memorabile articolo in cui si dava conto di una separazione per causa della «svolta»: lui era a favore, lei era contro e il loro matrimonio finì così. Sotto Botteghe Oscure vennero più volte i militanti del «no» a fischiare i dirigenti del «sì». Nanni Moretti girò un documentario e Chiara Valentini scrisse un libro: due opere che oggi forse fanno sorridere ma che rappresentano due piccoli capolavori, due esempi irripetibili di come la passione possa entrare nella politica fino a stravolgerla. Le sezioni si riempirono come mai era accaduto negli ultimi dieci anni e come mai accadrà dopo. L'Unità di Renzo Foà cominciò a raccontare il dibattito nel Pei con una libertà e una spregiudicatezza che alle Botteghe Oscure non piaceva per nulla e che finì per costare il posto al direttore, mentre dalle colonne morenti di Rinascita Alberto Asor Rosa guidava la resistenza del «fronte del no». Alla discussione politica - a lungo andare ripetitiva - si affiancò, e ad un certo punto si sovrappose un altro tipo di discussione e di scontro, tutto giocato sullo emozioni, sulle passioni, sul rimpianto, sulla nostalgia. Col senno di poi, si può dire che il Pei morì quando un milione di persone pianse per le strade assolate di Roma la bara di Enrico Berlinguer: ma di quella morte il Pei si accorse soltanto cinque anni dopo, nella nebbia triste della Bolognina, e ne fu travolto. Il 20 novembre si apre un Comitato centrale che si concluderà dopo cinque giorni e più di duecento interventi. Si formano i due fronti che per un altro anno e mezzo continueranno a combattersi. Con Occhetto ci sono praticamente tutti i giovani (da D'Alema a Mussi, da Livia Turco a Bassolino) e c'è la corrente migliorista di Napolitano (non senza scontri interni: Chiaromonte, per esempio, non nasconde più di una perplessità). Contro si schierano Ingrao, Pajetta, Tortorella, Cossutta. E contrario è anche Natta: comincia proprio con la «svolta» il suo silenzioso distacco dalla politica attiva e dal partito di cui è stato segretario. Quel lontano Comitato centrale ci dico molto sul passato del Pei e sul futuro del Pds. D'Alema, che puro mantenne sempre una riserva di fondo sul metodo scelto da Occhetto per fare ciò che pure bisognava fare, spiegò con brutale lucidità che «il Pei non è nato dal "Manifesto" di Marx, ma dalla Rivoluzione d'Ottobre». Al contrario, gran parte del gruppo dirigente storico, in ciò fedele al pensiero di Berlinguer, sostenne con durezza che il partito italiano i suoi conti con l'Urss li aveva già fatti, e che dunque cambiare nome sull'onda dei rivolgimenti all'Est significava implicitamente dar ragione a chi riteneva il Pei un'appendice, seppur democratica e avanzata, di quel mondo. Avevano ragione i Tortorella e gli Ingrao: il Pei era la frontiera più avanzata del comunismo, non altro. E il comunismo stava crollando nella gioia delle popolazioni di mezza Europa. Negli stessi giorni in cui il Pei si spaccava come una mela, a Ginevra si riuniva l'Internazionale socialista. Craxi disse la sua, e propose di dar vita ad «una grande forza di ispirazione socialista e democratica». Sembrava un'ovvietà: ne venne fuori un putiferio. Un po' perché gli avversari di Occhetto cominciarono subito ad agitare lo spettro della «deriva craxiana», un po' perché Craxi, al governo con la De ili Andreotti e Forlani, non mancò di ironizzare pesantemente sui partiti comunisti «che potrebbero diventare degli istituti per lo studio delle lingue morte», fatto sta che Occhetto recise sul nascere la possibilità di dare alla «svolta» lo sbocco politicamente più fecondo: quello appunto della riunificazione della sinistra italiana. Non solo: pressato dalla minoranza, Occhetto accetto di allungare all'inverosimile il percorso della «svolta»: il Comitato centrale si concluse con la convocazione di un congresso straordinario chiamato a decidere sulla possibilità o meno di aprire la «fase costituente» della nuova formazione politica... Per quindici interminabili mesi il Pei si avviluppò in una discussione sempre più incomprensibile e sempre più acrimoniosa, che peraltro non riuscì ad evitare la scissione di Cossutta, né portò nuove energie nella «cosa» che stava per nascere. Già, la «cosa»; per quindici mesi il più grande partito della sinistra si chiamò semplicemente così. E quando venne l'ora di scegliere il nuovo nome, Occhetto evitò accuratamente ogni riferimento al socialismo. Per colpa della politica aggressiva di Craxi, certo: ma anche per quell'ambiguità culturale e politica che risalo al Berlinguer della «diversità» e elio ebbe il suo trionfo noi congresso della primavera dell'89, quando lo stesso Occhetto s'illuse di poter rifondare il «nuovo Pei» e s'inventò il «riformismo forte» da contrapporre all'unico riformismo mai esistito, quello socialdemocratico. Da questo punto di vista, la «fase costituente» fu un clamoroso fallimento, o a Rimini, noi gennaio del 1991, il Pei arrivò stremato, indebolito, afasico. Al congresso di Bologna, nella primavera del '90, ci furono lo lacrimo di Occhetto ritrasmesso da tutti i telegiornali, la citazione dell'[J/is se di Tennyson (lo slesso che il professore dell'Attimo friggente leggeva ai suoi studenti), l'abbraccio commovente con Ingrao. Al congresso di Rimini, l'anno dopo, ci furono invece un'interminabile riunione notturna sul nuovo statuto e la solenne bocciatura di Occhetto, che si vide negare dal partito che faticosissimamente avev:-! fondato i voti necessari ad esserne il segretario. Occhetto alla Bolognina aveva ucciso il Pei, e il Pei si vendicò uccidendo lentamente Occhetto nell'anno e mezzo che seguì. Il ritardo storico, le ambiguità culturali, la lentezza esasperante, la contraddittorietà della «svolta» non ne cancellano tuttavia il valore. Che sta forse in ciò: aver finalmente liberato quella parte grande della sinistra italiana che Berlinguer aveva tenuto prigioniera nell'illusione del «comunismo democratico» e poi nel ridotto della «diversità». Se oggi anche in Italia c'è un sistema politico bipolare (ancorché pencolante), il merito va anche a quel lontano fine-settimana di novembre in cui Occhetto decise di far visita ad un'assemblea di partigiani. Il partito fu l'ultimo a porsi il problema del cambiamento Ciò minò l'efficacia della decisione Cambiato il nome Occhetto bloccò le possibilità di riunificazione della sinistra Le lacrime di Achille Occhetto al congresso di Bologna nella primavera del '90. Nelle due foto a sinistra l'ex segretario del Pei Alessandro Natta e il regista Nanni Moretti